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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / "The Games must go on"

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Martedì 6 Settembre 2022

 

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Cinquant'anni fa i giorni di Monaco ’72 e della strage degli israeliani: l’Olimpiade stava diventando un grosso affare e non era importante che l’antico patto della tregua fosse stato violato, sporcato da troppo sangue. 

Giorgio Cimbrico

C’è un immagine entrata nella galleria drammatica del secolo breve, come il miliziano morente di Robert Capa, i solidati russi che alzano la bandiera rossa sul Reichstag, i bambini vietnamiti che corrono e dietro a loro si sta alzando un sipario di napalm. E’ l’immagine di uno degli uomini di Settembre Nero, incappucciato, sul terrazzo dell’edificio numero 31 di Connollystrasse, Olympische Dorf, Villaggio Olimpico di Monaco di Baviera.

L’assalto alla squadra israeliana è di qualche ora prima, all’alba di cinquant’anni fa: a quel punto, Moise Weibner, allenatore di lotta, e Joseph Romano, sollevatore di pesi, sono già morti. Qualcuno è riuscito a fuggire, nove sono ostaggi. Sui muri dell’alloggio macchie di sangue. 

L’incappucciato inizia a dettare le condizioni: 236 palestinesi detenuti in Israele devono essere liberati e un aereo messo a loro disposizione per lasciare la Germania e far rotta verso un paese arabo. E’ il fallimento di un sistema di sicurezza che molti testimoni, ancora in vita, assicurano perforabile con una limetta per unghie; è la prova che nulla era stato pianificato a livello di intelligence (i preparativi dell’attacco risalivano a un anno prima e uno dei terroristi, ingegnere, aveva lavorato al progetto del Villaggio), è il precipitare dell’Olimpiade in un vortice che il silenzio imposto dai poteri forti (politici e sportivi) avevano evitato quattro anni prima, dopo il massacro di piazza delle Tre Culture, nell’imminenza dei Giochi messicani. 

Il dramma è al primo atto. La confusione, l’incertezza tra le autorità centrali di Bonn e quelle bavaresi è palese, totale. Da Tel Aviv Golda Meir risponde che la linea della fermezza verrà rispettata e che nessun prigioniero sarà liberato. Il Villaggio è circondato e per la prima volta nella storia i Giochi vengono sospesi. Capiterà ancora nel 1996, dopo l’esplosione di un ordigno nel Parco Olimpico di Atlanta. 

Le condizioni richieste dai palestinesi vengono, all’apparenza, accolte dai tedeschi. Due elicotteri porteranno gli otto terroristi e i nove ostaggi all’aeroporto militare di Furstenfeldbruck, a una sessantina di chilometri da Monaco e da lì lasceranno la Germania su un 727 della Lufthansa. La conclusione avverrà lì, in un succedersi di errori, di speranze cancellate, di menzogne. 

Quando i fedayn e gli ostaggi stanno per lasciare gli elicotteri, cinque tiratori scelti tedeschi aprono il fuoco, i palestinesi rispondono, colpiscono i riflettori. Nel buio uno di loro lancia una granata nell’elicottero degli ostaggi. Non un sopravvissuto. Cadono anche cinque palestinesi. Tre vengono catturati. 

Di fronte alla terribile ferita, Avery Brundage, il miliardario americano presidente (e a lungo padrone) del CIO, mostra un cinismo che gli era abituale sin da quando aveva evitato il boicottaggio degli Stati Uniti ai Giochi berlinesi del 1936 entrando nelle grazie di Joseph Goebbels. “Non possiamo permettere che i Giochi si interrompano”, parole passate alla storia con un più incisivo “The Games must go on”. L’Olimpiade stava diventando un grosso affare e non era importante che l’antico patto della tregua fosse stato violato, sporcato da molto sangue. 

E così tutto si risolse con una commemorazione all’Olympiastadion: undici bare, la marcia funebre dall’Eroica di Beethoven, le bandiere a mezz’asta. Intanto i “falchi” del governo Meir erano passati all’azione ordinando bombardamenti in Siria e Libano contro la basi dei palestinesi. La rabbia degli israeliani sarebbe salita quando, meno di due mesi dopo, i tre fedayn sopravvissuti alla notte della strage sarebbero stati liberati: un altro commando aveva dirottato il volo Lufthansa fra Beirut e Istanbul chiedendo la liberazione in cambio della vita dei passeggeri. Bonn accettò. Il Mossad stava preparando la sua lunga vendetta: affidata a un gruppo di cui soltanto le più alte sfere di Tel Aviv conoscevano l’esistenza. Avrebbe disseminato di morti molte capitali europee. 

Alla ripresa delle gare, qualcuno notò, in una delle semifinali dei 100H, che la corsia numero 4 era vuota. Era quella di Ester Roth, tornata in patria con quel che rimaneva della squadra. Sul tabellone la sigla era NA, nicht arbeit. In tedesco significa: non parte.


Articolo pubblicato ieri sul Secolo XIX.

 


 

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