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I sentieri di Cimbricus / Su Barthel ce n'era da raccontare ...

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Sabato 22 Settembre 2018

 

barthel

 

Aspetti secondari della faciloneria becera del linguaggio calcistico, tra formule astruse e una certa ignoranza.

 

di Giorgio Cimbrico

L’uomo Sky che l’altra sera commentava Dudelange-Milan di Europa League ha annunciato che si giocava al Josy Barthel Stadium. Perché si chiami così, non è stato svelato: meglio lanciarsi nelle prodigiose alchimie del 4-3-3 che può trasformarsi in 4-5-1 o, all’occorrenza, in 4-2-3-1. Quando il linguaggio era più chiaro e onesto, il lussemburghese Dudelange sarebbe stato simpaticamente etichettato come una squadra di postelegrafonici: c’è sempre un postino – o un poliziotto o uno studente o un disoccupato – in queste bande di entusiasti che si trovano a dover affrontare professionisti superpagati che rombano su macchine da sogno.

Torniamo al nome dello stadio perché ne vale la pena: Joseph Barthel, per tutti Josy, era il pelatino che (col numero 405) occupa il centro di una delle fotografie più famose della storia dell’atletica e delle Olimpiadi, scattata il 26 luglio 1952 allo stadio di Helsinki. Josy sta sorridendo e alzando le braccia: l’oro dei nobili 1500 è suo e ancor oggi risulta il più grande successo nella storia dello sport del Granducato. Michel Theato, vincitore della maratona olimpica del 100, nei sacri testi risulta francese, malgrado non avesse mai abbandonato la sua vera nazionalità.

A questo punto, è bene lasciar la parola a Josy, che era del ’27 e se n’è andato giovane nel ’92: “Gli ultimi cinque metri me li sono proprio goduti. Avevo capito di aver vinto e ho alzato le braccia. Subito dopo, però, sono caduto dentro a una grande confusione, non capivo più niente e mi sono messo a piangere. Mi ha risvegliato Audun Boysen (norvegse, grande ottocentista, primatista del mondo dei 1000): cosa fai, Josy, stai male? mi ha domandato. E io: no, non sto male. il fatto è che ho vinto”. La vittoria può schiacciare più della sconfitta.

Su quei momenti disse cose bellissime Roger Bannister (504), quarto, che avrebbe avuto il suo giorno di lì a meno di due anni sulla pista di Iffley Road: “Lo vidi su podio, sopraffatto da una marea di commozione, grato al pubblico che lo stava applaudendo. In quel momento realizzai che non si trattava di partecipare o di vincere, come dice il motto olimpico, ma di saper battersi bene”.

Barthel non era un signor nessuno: nel ‘47 e nel ’48 aveva messo le mani sul titolo mondiale militare, a Londra era finito nono nella finale dominata dal pompiere Henry Eriksson e dal linotipista Lennart Strand, l’uno e l’altro svedesi, nel ’49 e nel ’51 era diventato campione mondale universitario. A Helsinki il favorito era il tedesco Werner Lueg che a Berlino, appena prima dei Giochi, aveva uguagliato il 3’43”’ mondiale del magnifico Gunder Hagg e di Strand.

All’inizio dell’ultimo giro Lueg rilevò il connazionale Rolf Lamers optando per un lungo serrate, respingendo i tentativi di Bannister e del franco-algerino El Mabrouk e tenendo ancora un margine di tre metri sull’ultima curva. A questo punto sbucarono Barthel e il californiano Robert McMillen che raggiunsero e saltarono Lueg quando mancavano meno di cinquanta metri. McMillen lo tallonava da vicino, un piede e mezzo secondo i loro sistemi di misurazione, ma Josy mantenne un’incantevole calma. Né lui né l’americano avevano mai corso così veloci: 3’45”1, record olimpico, e 3’45”2.

Barthel, al ritiro dopo Melbourne 1956, fu presidente della federazione lussemburghese e del comitato olimpico e ministro del Granducato. Nel 2006, ben dopo la sua morte, un giornalista tedesco lo accusò di aver fatto uso di amfetamine ma Oskar Wegener, lo scienziato che aveva svolto ricerche su quelle sostanze, cancellò accuse e sospetti.

Su Barthel ce n’erano da raccontare, ma con il 4-3-3 si fa prima.


 

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