- reset +

Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

Direttore: Gianfranco Colasante  -  @ Scrivi al direttore

Bordo campo / La storia dimenticata di Basil d'Oliveira

Venerdì 11 Marzo 2022

 

doliveira 


La guerra in Ucraina e l’esclusione della Russia da tutte le competizioni sportive internazionali, hanno riproposto il rapporto complesso tra sport e politica. Un legame spesso ondivago, fatto di compromessi e opportunismi. Come insegna la vicenda di questo campione sudafricano di cricket negli anni dell’Apartheid, e di come la sua esclusione dalla nazionale inglese aprì gli occhi degli appassionati in Inghilterra e in Sudafrica.

Gianluca Barca

“Dio stramaledica gli inglesi”, sibilò quel pomeriggio del 23 agosto 1968, Balthazar Johannes Vorster. Il primo ministro del Sudafrica non conosceva Mario Appelius ma ne avrebbe senz’altro sottoscritto il motto. Quella banda di socialisti e liberali al servizio di Harold Wilson, il premier laburista di Londra, l’aveva fregato. Un anno di trattative, incontri segreti, lettere riservate, persino un tentativo di corruzione, erano stati vanificati dalla performance sul campo di cricket di un coloured sudafricano emigrato in Gran Bretagna.

Peggio, di un coloured sudafricano la cui ostinazione lo metteva ora in condizione di tornare nel proprio paese d’origine con la maglia della nazionale inglese. Il che era contro le leggi del Sudafrica e inaccettabile per i principi dell’apartheid.

Per il regime di Pretoria, Basil D’Oliveira non avrebbe mai dovuto diventare un giocatore di cricket internazionale. Confinato nelle “black leagues”, i campionati riservati a tutti coloro che non erano bianchi, D’Oliveira era destinato a giocare con i neri, i coloured, gli indiani, i sanguemisti, ossia quelli ai quali la dottrina di T.E. Donges, ministro degli interni del governo di Pretoria, vietava dal 1956 di prendere parte a competizioni sportive interrazziali. Basil D’Oliveira era un coloured, così catalogato dal Registration Act che il governo sudafricano aveva emanato nel 1950, dividendo la popolazione del paese in tre categorie: bianchi, bantù (africani) e indiani o, appunto, “coloured”.


Inutile dire che il diritto pieno di cittadinanza apparteneva solo ai bianchi. Gli altri erano uomini di serie B: nel 1965, la presenza di un nero, Papwa Segwolum, nell’unico torneo di golf in Sudafrica che ne aveva accettato l’iscrizione, fece sì che le televisione rinunciasse a trasmettere la competizione e quando, al termine della gara, il giocatore risultò malauguratamente vincitore, la coppa gli fu consegnata attraverso la finestra della sala dove si teneva la premiazione, lui in piedi sotto la pioggia, perché il club non poteva accettare che i “non bianchi” venissero ammessi sotto lo stesso tetto che dava riparo agli afrikaneer.

Nonostante fosse molto bravo, perciò, a Basil D’Oliveira era vietato confrontarsi con i migliori, relegato a giocare sui campi di periferia e ad assistere ai test match internazionali dalla “gabbia” (the Cage), la porzione dello stadio di Newlands, a Città del Capo, dove i “non white” si ammassavamo dietro il filo spinato mentre i bianchi sedevano comodamente in tribuna. Neri e coloured amavano il cricket. In un paese che non rispettava i diritti civili, quello sport britannico era per loro una rara occasione di esibire la propria dignità.

Le squadre “non bianche” non disponevano di club house o di campi in erba, i terreni di gioco su cui si battevano erano tristi e polverosi, ma le divise dei contendenti impeccabili e poteva capitare che chi si presentava con le scarpe sporche fosse mandato a pulirle prima di scendere in campo. “Una cosa non devi mai dimenticare a proposito del cricket – aveva insegnato Lewis D’Olivera al figlio –: si tratta di un gioco per gentlemen e come tali bisogna comportarsi e vestirsi”.

Gentlemen invisibili, però, se non si aveva il giusto colore della pelle. In Sudafrica gli sportivi “non bianchi” non esistevano, autorizzati a confrontarsi solo fra di loro, non parliamo di attività di alto livello e di sfide internazionali, quelle erano riservate ai soli Springboks e sull’argomento Vorster era stato più che esplicito: “Dovrete passare sul mio corpo perché un nero, un coloured o un indiano vesta la maglia della nazionale sudafricana, sia quella del cricket, del rugby o del football”.

Sulla faccenda, tutti gli enti sportivi internazionali, compresi il CIO, la IAAF (atletica), l’IRB (rugby) e The Marylebone Cricket Club, l’organismo che da più di un secolo amministrava il cricket in Gran Bretagna, avevano a lungo chiuso gli occhi. Finché intorno alla metà degli anni Sessanta, sotto la pressione di molti paesi e nonostante la riluttanza di dirigenti come Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico, il Sudafrica aveva dovuto cominciare a fare i conti con l’esclusione dalle maggiori competizioni internazionali. L’ultima edizione delle Olimpiadi cui i sudafricani avevano potuto prendere parte era stata quella Roma, mentre nel cricket nessuno aveva mai posto obiezioni di sorta alla politica di Pretoria.

Per questo, Basil D’Oliveira, nel 1960, a quasi ventinove anni, povero in canna e con la moglie incinta, era emigrato a Middleton, in Inghilterra, aiutato da altri “non white” come lui a sostenere le spese del viaggio. Il Middleton gli aveva offerto un piccolo ingaggio ma il giocatore non aveva neppure i soldi per raggiungere l’Europa: il biglietto aereo fu comprato con una colletta alla quale aveva partecipato tutta la comunità di Bo Kaap, dove D’Oliveira era nato e cresciuto.

La sua però sarebbe stata una storia come un’altra se, dopo aver ottenuto la cittadinanza britannica, conseguenza di un certo numero di anni di residenza nel Regno Unito, nel 1966 non fosse stato chiamato a far parte della nazionale inglese: un coloured, un individuo inferiore secondo la razza, ritenuto incapace di praticare lo sport se non a livelli rudimentali, selezionato addirittura per la nazionale inglese. A Città del Capo la notizia divenne un caso nazionale.

Il problema si acuì quando nel 1968, l’Inghilterra venne invitata ad effettuare una tournée proprio in Sudafrica, dove D’Oliveira non era gradito, tanto meno con la maglia di un paese straniero. Nel 1965, la federazione neozelandese aveva cancellato la tournée della squadra di rugby perché i sudafricani non avrebbero accettato nelle file degli All Blacks la presenza di giocatori maori.

Nel suo gutturale inglese Vorster tuonò contro “chi voleva mettere in discussione l’identità bianca del paese” ed emissari del governo di Pretoria, all’inizio di quel 1968, cominciarono a prendere contatti con i dirigenti del cricket britannico per fare in modo che D’Oliveira non fosse incluso nella squadra selezionata per vistare il paese.

Alec Douglas-Hume, ex primo ministro britannico, nonché in gioventù giocatore di cricket di alto livello, consigliò D’Oliveira di stare alla larga dalla politica. “Continua a giocare coma sai – gli disse – e sarà quella l’arma in più con cui farti valere”.

Il giocatore lo prese alla lettera: “non ho niente da dire – rispondeva a chi lo interpellava sull’argomento – voglio solo potermi confrontare con i migliori giocatori del mondo”. E l’affermazione faceva un grande effetto perché era evidente a tutti quanto fosse assurdo il fatto che un campione come lui non lo potesse fare. Tuttavia le cose non erano affatto semplici. Nell’ombra parecchie forze gli tramavano contro e Vorster, attraverso missive non ufficiali, aveva fatto sapere che la presenza di D’Oliverira nell’Inghilterra sarebbe stata considerata un affronto alle leggi sudafricane e il tour immediatamente cancellato se il giocatore avesse fatto parte della squadra inglese.

Fedeli all’etichetta fino al midollo, i dirigenti del Marylebone club si trovarono così presi tra due fuochi, non sapendo se privilegiare la propria indipendenza di giudizio o se mettere la tournee al di sopra di tutto. Per la nobile e antica tradizione di cui si sentivano interpreti, la cancellazione della trasferta in Sudafrica sarebbe stato un fatto disastroso e senza precedenti, per la propria onestà di uomini liberi, l’esclusione del giocatore una faccenda altrettanto grave.

A giugno, D’Oliveira giocò il primo test delle prestigiose “Ashes”, contro l’Australia, poi venne escluso a sorpresa nei successivi tre. Dietro le quinte, qualcosa che la sua abilità di semplice giocatore non poteva controllare si muoveva con lenta e inesorabile efficienza. Il 20 agosto, tuttavia, mentre i carri armati sovietici occupavano Praga e il mondo aveva altro cui pensare, D’Oliveira venne a sorpresa richiamato in squadra per il quinto e decisivo match contro gli australiani, nel quale con 158 run nel primo inning, parve aver eliminato ogni dubbio sui suoi effettivi meriti. Quel pomeriggio Vorster pensò di essere stato tradito dagli amici inglesi. Durante l’estate, lo stesso governo sudafricano aveva offerto a D’Oliveira 50 mila sterline perché rinunciasse volontariamente alla nazionale d’Inghilterra. “La mia gente, giù a Città del Capo, non capirebbe – scosse la testa il giocatore che, con quella cifra, ai valori di allora, si sarebbe sistemato per tutta la vita –. Mi considererebbero un venduto, un traditore. Preferisco la trasferta ai soldi”. Non aveva fatto i conti però con la forza della diplomazia occulta sudafricana.

Il 28 agosto, quando fu comunicata la squadra per la trasferta, il suo nome nella lista non c’era. D’Oliverira, che apprese la notizia mentre giocava un match fra contee, a quell’annuncio si sentì male e quasi svenne sul campo. “Bye Bye Dolly”, titolarono sarcasticamente i giornali che, però, contemporaneamente cominciarono a chiedere insistentemente il perché di quell’esclusione assurda. Trent’anni dopo, il Times la metterà al primo posto degli scandali sportivi di tutti i tempi. Il giocatore ricevette tali e tante lettere di solidarietà che il postino che faceva servizio nel suo quartiere, per giorni, fu obbligato a prendere servizio un’ora prima al mattino per smaltirle tutte. Finché il 16 settembre Tom Cartwright, convocato nella formazione come bowler, dovette dare forfait per infortunio, lasciando vacante un posto in squadra. Nessuno è mai stato in grado di dire se il suo fu un infortunio reale o un ritiro “politico”. Fatto sta che a quel punto per i selezionatori inglesi fu impossibile non alzare le braccia in segno di resa e richiamare, a furor di popolo, D’Oliveira in nazionale.

Il giorno dopo il governo sudafricano cancellò l’invito per la tournée e con quel gesto cominciò a scavare la fossa dell’apartheid, sebbene ci sarebbero voluti altri vent’anni, o più, per arrivare a una svolta definitiva. L’affaire D’Oliveira è considerato il momento decisivo nella presa di coscienza da parte del mondo anglosassone di cosa fosse realmente la segregazione razziale in Sudafrica. “D’Oliveira ci ha aperto gli occhi – dirà quarant’anni dopo Morne Du Plessis, leggendario rugbista sudafricano e allenatore degli Springboks che nel 1995 conquistarono la Coppa del Mondo di rugby, la prima cui il Sudafrica fu ammesso a partecipare dopo la fine dell’apartheid –. Con lui cominciammo a capire come funzionavano veramente le cose nel nostro paese”.

Un mese più tardi la conclusione di questa storia, in quell’autunno del 1968, Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso sul podio dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico. Protestavano per i diritti civili a favore dei neri d’America. Un anno prima, Muhammad Alì era stato privato del titolo mondiale dei pesi massimi, per essersi rifiutato di andare a combattere in Vietnam (“nessun vietcong mi ha chiamato negro”, disse). Il gesto di D’Oliveira fu meno eclatante, ma non meno efficace. La sua fu la rivolta silenziosa di un uomo mite. “Grazie, Basil per tutto quello che hai fatto” – gli disse Nelson Mandela, divenuto presidente, dopo averlo invitato a pranzo.

Basil d’Oliveira è morto nel 2011. Il giorno dopo, durante la sfida tra Sudafrica e Australia, la folla del Wanderers Stadium di Johannesburg lo ha ricordato con un minuto di silenzio. Lui non vi era mai stato ammesso da giocatore.

 

 

Cerca