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Momenti di calcio / La leggenda di Ocsi e degli artisti danubiani

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Sabato 4 Maggio 2024

 

puskas


Tra le mille anime del calcio, il più popolare e aristocratico tra gli sport. Partiamo con la finale mondiale ’54, ai tempi della cortina di ferro, quando la Grande Ungheria uscì sconfitta dalla partita che non poteva perdere. E che i tedeschi …

Andrea Bosco

Ocsi bussò alla porta della camera del suo allenatore Gusztav Sebes. La caviglia gli fa male ma Ocsi, il Colonnello (grado conferitogli nell'esercito) Ferenc Puskas a quell'appuntamento vuole esserci. Per quel giorno, il 4 luglio 1954, Ocsi e la sua Ungheria, la Aranycsapat, come chiamano quella squadra, hanno un appuntamento con la Storia. Quel giorno si disputa a Berna la finale dei Campionati Mondiali. E l'Ungheria è la favorita.

Ha già battuto la Germania Ovest nella fase a gironi. Ma quella partita ha lasciato un pesante strascico dopo un intervento di Werner Liebrich su Puskas. Prima della finale i magiari regolano il Brasile e successivamente l'Uruguay, campione in carica: un 4-2 che estasiò Gianni Brera che era solito definirla “la più bella partita della storia del calcio“. Quella Ungheria è in pratica la Honved, la squadra di Budapest. In Italia c'è stata una squadra simile alla Honved che smetteva la maglia granata per indossare quella azzurra: il Grande Torino (di cui, proprio oggi, cade l’anniversario della sua tragica scomparsa). Anche quel Torino aveva il suo Puskas, il suo fuoriclasse, l'uomo capace di cambiare il volto di qualsiasi partita: Valentino Mazzola.

Molti di quei giocatori magiari hanno cominciato a giocare in strada nello stesso rione: si conoscono da bambini. Come Bozkis il genio euclideo che gioca in mezzo al campo. Come Kubala che è fuggito dall'Ungheria all'estero, che giocherà anche nella Pro Patria di Busto e che diventerà un asso del Barcellona, ma che ai Mondiali in Svizzera non ci sarebbe stato. Quella Ungheria ha giocatori straordinari che per due volte negli anni precedenti al Mondiale hanno umiliato a Wembley e poi a Budapest i maestri inglesi.

Quei giocatori si chiamano Czibor, ala dribblomane che realizza gol impossibili e che rammenta Mumo Orsi. Ha Kocsis che gioca con il numero 8 ma che di fatto è il centravanti della squadra: fortissimo di testa, acrobatico, solido, implacabile in area. Ha Hidegkuti che all'inizio gioca ala destra ma che presto Sebes sposterà al centro, di fatto inventando un ruolo che non esisteva: il centravanti arretrato. Prima di Di Stefano, la “saeta rubia“ del Real Madrid, prima del 14 dell'Ajax, prima di Tostao, prima di Ibra.

E poi c'è Ocsi: lo chiamo così, “fratellino“, da quando ha esordito a 16 anni in una gara persa 3-0 ma nella quale comunque incanta. E' un predestinato, Ocsi: gioca da quando ha 12 anni e per eludere il veto della sua Federazione, che impedisce ai giovanissimi di giocare nei campionati dei “grandi“, si registra con uno pseudonimo: Kovacs. Gioca con il numero 10. Fa la mezz'ala, ma sa giostrare anche da regista. E' piccoletto, tarchiato, robustissimo. Ha una faccia da eroe di Le Carrè. Ha controllo, dribbling. Ma soprattutto ha un sinistro letale che colpisce il pallone alla velocità della luce.

Ho avuto la fortuna di vederlo una volta giocare a Madrid dove si trasferì indossando la camiseta blanca del Real: impressionante. Che io rammenti solo Jimmy Greaves, l'asso del Tottenham visto per mezza stagione con la maglia del Milan, sapeva colpire con quella velocità. Ma Puskas non tira solo forte e veloce. Puskas fa gol a raffica: quasi sempre da fuori area colpendo il pallone con violenza e dando alla sfera una estensione centripeta che mette in difficoltà qualsiasi portiere. E' il celebre tiro “all'ungherese“: Puskas colpisce di mezzo collo con l'esterno del piede, riuscendo comunque, prodigiosamente a mantenere diritta, con leggero effetto ad uscire, la traiettoria. E' un tiro che ha provato e riprovato. In Italia, Beppe Signori ci costruirà una carriera.

Ferenc Puskas avrebbe potuto venire, tra il 1949 e il 1950, a giocare in Italia. Un funzionario della Fiat lo vede all'opera e lo segnala a Gianni Agnelli. Le trattative ben avviate (la Fiat è in grado di far trasferire un giocatore anche da un paese a regime comunista) però presto si interrompono per volontà del giocatore e Puskas non approderà alla Juventus. E' successo che Puskas ha una fidanzata diciottenne, Erzsebet, che gioca a pallavolo e della quale è perdutamente innamorato. Le autorità del suo paese a Erzsebet non concedono il visto d'espatrio. E lei non ha voglia di andarsene dalla sua terra. Quindi Ocsi dice “grazie, ma resto in Ungheria“. Anni dopo sposerà la donna della sua vita, da lei avrà una figlia, la farà uscire dall'Ungheria in modo rocambolesco: si ameranno per tutta la vita.

Gianni Agnelli si consolò per il mancato arrivo di Puskas con John Hansen, un danese possente e con Rinaldo Martino, un talentuoso italo-argentino che i tifosi presero a chiamare “zampa di velluto“. Che non era Renato Cesarini e non era quello che sarebbe stato Omar Sivori. Ma che in una stagione segnò 23 reti, contribuendo allo scudetto della Juventus. Quella che l'Avvocato, confessava di aver amato più di ogni altra. A fine stagione Martino fu costretto dalla moglie (che aveva nostalgia del tango, della carne alla brace e del mate) a tornare a Buenos Aires. Storie di calcio.

In Ungheria governano i comunisti filo russi: l'Europa è stata divisa dalla “Cortina di ferro“. I paesi orientali come Ungheria, Romania, Albania, Bulgaria, Polonia, Cecoslovacchia sono di fatto dei protettorati con al governo filo russi. Identica cosa è accaduta alle Repubbliche baltiche, Lituania, Lettonia, Estonia. Così come all'Ucraina. Solo la Jugoslavia è “non allineata“. Comunista ma non allineata. Enzo Bettiza al Giornale raccontava come periodicamente Stalin inviasse un sicario a Belgrado con l'incarico di assassinare Tito. E che all'ennesimo tentativo fallito (sicario scoperto e giustiziato) Tito inviasse a Stalin un biglietto di questo tenore: “Compagno Josif , ho scoperto e reso inoffensivo l'ultimo dei tuoi sicari. Nel caso tu dovessi mandarne altri ti informo che ne manderò io uno a Mosca. E non sarà necessario che ne invii un secondo“. Tito morì nel 1980. Dopo la sua morte la Jugoslavia implose nei cento staterelli che il pugno di ferro di Tito aveva tenuti uniti.

La Germania dopo Yalta era stata, su precisa volontà di Stalin, divisa in due: a Est la DDR, di fatto una colonia sovietica. A Ovest la Germania controllata dagli occidentali. Berlino è una città divisa, sede di traffici di ogni tipo e di spy stories. Il Muro (che sarà eretto dalla sera alla mattina nel 1961 per impedire la continua fuga dei tedeschi dell'Est verso Occidente) ancora non c'è. Ma i due mondi sono profondamente diversi. Anche se entrambe le Germania devono fare i conti con il passato nazista. La guerra è terminata solo da 9 anni. L'hanno vinta gli americani e i russi con l'aiuto degli inglesi. Germania, Giappone e Italia sono stati sconfitti. L'Europa non sarà mai più la stessa. Il mondo non sarà mai più quello di prima. Molte città della Germania portano i segni della distruzione. Le ferite dei bombardamenti dopo le mille incursioni dei B-25 Mitchell e dei B-52 sono visibili nelle strade e negli edifici sventrati. Se la partita per l'Ungheria è importante, per la Germania dell’Ovest lo è di più ...

L'Ungheria mal sopporta il controllo sovietico: sono ungheresi, estroversi, mattoidi, geniali nelle arti, nella musica e nel calcio. E sono ribelli. Lo sono sempre stati. Nel 1956 scenderanno in strada contro i carri armati sovietici e combatteranno. Io andavo alle Medie a Venezia al “Marco Foscarini“. Nella mia classe c'era anche Paolo Zanon che sarebbe diventato il miglior arbitro di basket (con Marzio Zambelli) del Paese. Rammento che i compagni del ginnasio e del liceo ci fermarono alla porta d'ingresso quel giorno: “Oggi si va a protestare e a sostenere l'Ungheria“. E così facemmo. Niente sapevamo di politica. All'inizio ci parve una bella occasione per evitare un giorno di scuola. Ma quando ci dissero che quel popolo stava combattendo per la libertà, andammo in Piazza San Marco a sfilare e a gridare che noi “stavamo con gli ungheresi“.

Quella squadra di calcio era diventata l'orgoglio e la speranza del paese. La vita è dura in quei giorni in Ungheria, ma quella squadra che fa sognare la rende sopportabile. E poi sono imbattibili, nessuno è forte come gli ungheresi che giocano un football brillante e d'attacco. “Troppo sbilanciato“ ammonisce da Berna Gioabrerafucarlo che tra l'altro stravede per Schiaffino e quelli di Rio de la Plata. I tedeschi sulla carta non hanno chances e lo sanno. Ma il loro allenatore Herberger, vecchia volpe del calcio, nella gara del girone eliminatorio ha fatto scender in campo una squadra zeppa di riserve. Ha studiato i punti deboli e i segreti dei magiari. Sa che Puskas, Kocsis e Czibor possono fare a fette qualsiasi difesa. Ma ha capito che la mossa vincente è quella di prendere a uomo Bozsik e Hidegkuti, le menti organizzative dell'Ungheria.

La Germania ha una buona squadra con due fuoriclasse: l'attaccante Rahn e il centravanti Fritz Walter. Il quale ha una faccia da “Terzo Uomo“ e un vissuto veramente da Le Carrè. Durante la guerra finisce in un reparto denominato “I diavoli rossi“. Ma Walter ha paura di volare: timore che non lo abbandonerà neppure dopo la fine delle ostilità. A fine conflitto i russi internano i soldati tedeschi nei Gulag. Lo salva un carceriere che ha la passione del calcio e che lo ha visto giocare prima della guerra. Non vuole che quell'uomo muoia di stenti e mente ai suoi superiori, assicurando che quel Walter non è tedesco ma austriaco.

La Germania ha gli occhi del mondo addosso, in Svizzera. Non ha partecipato al Mondiale del ‘50, solo nel 1948 la Federazione internazionale ha allentato sul calcio tedesco le limitazioni. Se hai perso la guerra che ha prodotto milioni di morti e a Norimberga i tuoi politici e i tuoi generali sono stati giudicati per crimini di guerra e contro l'umanità, se sei il paese che ha prodotto l'orrore di Auschwitz e, ignobilmente, “la soluzione finale della questione etnica“, inevitabilmente a pagare è anche lo sport. Germania significa, ancora, anche a dieci anni dalla fine del conflitto per il mondo intero, guerra mondiale, Hitler, campi di sterminio, Olocausto, Gestapo e SS.

La finale di Berna è per la Germania una occasione di riscatto. Ha dalla sua l'opinione pubblica occidentale e la simpatia di molti politici. Quelli che hanno cominciato a pensare che l'Orso Sovietico sia molto pericoloso. E che forse quell'incontrollabile generale Patton, che avrebbe voluto continuare la guerra e spingersi con i suoi tank fino a Mosca, non avesse tutti i torti. Non è ancora “guerra fredda“. Ma è mondo occidentale contro mondo comunista. Se la Germania vince manda un segnale fortissimo alle pubbliche opinioni del mondo: la democrazia si fa preferire. Anche nel calcio.  

Ocsi guardò il suo allenatore e disse “voglio giocare“. Sebes che stava pensando di schierare la grezza riserva (ma integra) Palotas non se la sente di dire di no. Quindi gioca Puskas. Al Wankdorf di Berna l'Ungheria si schiera con Grosics tra i pali, il portiere che sa giocare con i piedi, e poi Buzanszky, Lantos, Boszsik, Lorant, Zakarias, Czibor, Kocsis, Hidegkuti, Puskas e Toth. La Germania risponde con Turek, Posipal, Kohlmeyer, Eckel, Liebrich, Mai, Rahn, Morlock, Otto Walter, Fritz Walter e Schafer. L'Ungheria da quattro anni è imbattuta. Ha vinto l'oro olimpico nel 1952 (eliminando gli azzurri) e la Coppa Internazionale l'anno dopo. Arbitra il signor Willam Ling.

Dopo il fischio d'inizio comincia davanti a 62.500 spettatori la danza zigana. E' piovuto molto, prima della gara, il campo è pesante. Ma dopo sei minuti Puskas è già in gol. Passano altri due minuti e su un clamoroso errore della difesa tedesca va a segno Czibor per il 2-0. I tedeschi però non si demoralizzano. Al 10' del primo tempo dimezzano lo svantaggio con Morlock e al 18' Rah trova il pareggio. L'Ungheria schiuma rabbia e si avventa. Turek para l'impossibile, i magiari colpiscono un palo, Kohlmeyer salva sulla riga a portiere battuto. Stessa musica nel secondo tempo, nonostante Puskas zoppichi vistosamente. Altra traversa degli ungheresi e una serie di occasioni fallite di pochissimo. Torna a piovere e il campo non favorisce la tecnica dei magiari. A sei minuti dalla fine il colpo di scena: dal limite dell'area Rahn fa partire un diagonale che fa secco Grosics: Germania in vantaggio.

Ma Ocsi non ci sta: è la sua partita. E benché claudicante due minuti dopo, all'86', segna di sinistro. Ma per l'inglese Ling (su segnalazione del guardalinee gallese Benjamin Griffiths) è fuorigioco e annulla. La chiamata è estremamente dubbia. Ma all'epoca non c'è il Var. All'ultimo minuto è Czibor ad avere l'occasione per pareggiare. Ma la Dea ha deciso diversamente. Vincono i tedeschi. A fine gara, sportivamente Puskas va a stringere la mano a Fritz Walter. E' la fine della Grande Ungheria e anche dell'Ungheria paese. I giornali titoleranno “Miracolo a Berna“. Gianni Brera scrive che “i magiari troppo si sono sbilanciati in attacco evitando di proteggere la difesa“. La verità è che all'interno della Squadra d'Oro negli ultimi tempi non tutto filava liscio. C'erano tensioni personali tra i giocatori. Pare che più volte fosse stato ipotizzato di fuggire all'estero durante una della trasferte della squadra. Prima della finale molti giocatori non volevano che Puskas infortunato giocasse.

La verità è che la preparazione fisica (migliore) dei tedeschi su un campo molle ha fatto la differenza. La verità è che l'incapacità dei magiari di difendere il risultato ha alla fine inciso in modo devastante. La verità è che Herberger anticipa (o forse copia) il “catenaccio” inventato dagli svizzeri, che tanta fortuna avrebbe avuto in Italia. Ma Nereo Rocco in una intervista mi disse: “El catenaccio non lo gà inventà Gipo Viani: son sta mi. O forse no: nel 1941-42 a Padova i Franzin, Borgioli, Passalacqua, Gino Bortoletti (de Mira), Sforzi, Villa, già zogava cussì“. La verità è che a Berna si chiuse il ciclo del “modulo danubiano“. Ma quella gara si portò appresso (e ancora si porta) il sospetto del doping. Qualche settimana dopo la finale gran parte dei calciatori tedeschi viene colpita da un morbo itterico. Un medico tedesco confesserà anni dopo che dal 1950 in Germania venivano eseguite, nello sport, pratiche dopanti. Nulla fu provato al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma neppure la cosa fu indagata: la FIFA non svolse alcuna inchiesta.

Il ritorno in patria fu per gli ungheresi un inferno. Iniziarono le voci più disparate. Per esempio che le autorità magiare avessero costretto i giocatori a perdere in cambio di una grossa partita di trattori indispensabili allo sviluppo agricolo del paese. Altra voce, quella che voleva un “Occidente vendicativo“ per mezzo dell'arbitro Ling (che fuorigioco dubbio a parte aveva diretto bene) contro il sistema politico magiaro. Più verosimile che i tedeschi (Gianni Brera ne era convinto e scrisse: “E' voce comune che si siano drogati come cavalli secondo dettami biochimici allora ignoti ai comuni mortali“) avessero “libato“ facendosi aiutare dalla chimica. Dopo la scoperta del morbo che li aveva colpiti, quei giocatori furono costretti a sospendere per parecchio tempo l'attività. I tedeschi si pararono le chiappe incolpando del virus l'Hotel Belvedere sul Lago di Thun dove avevano soggiornato durante la permanenza a Spiez. Provocando le forti rimostranze del direttore dell'Hotel presso la federazione germanica.

Nel 1955 Friedebert Becker, direttore della rivista Kicker, scrisse prima di Germania-Italia a Stoccarda che “a parte tre elementi, tutti i campioni del mondo sono stati colpiti da una epidemia che imperversava fra i soldati nella seconda guerra mondiale: l'itterizia contagiosa“. Ma a sostegno della buona fede dei tedeschi va detto che anche Herberger, l'allenatore, ne fu colpito. Dopato anche lui? Se il successo dei tedeschi (ma non ci furono mai vere prove) fu macchiato da pratiche proibite nessuno lo sa. E probabilmente mai si saprà. Se qualcuno sapeva, quel segreto se l'è portato nella tomba. L'albo d'oro dice Germania, in una data che dal 1945 aveva fatto risuonare per la prima volta, dopo la fine del conflitto, l'inno nazionale tedesco in pubblico. Germania sopra tutti. Uber alles.

Innumerevoli sono i trofei e i primati conquistati da Puskas, La sua leggenda in Ungheria è rimasta intatta. Un solo giocatore, successivamente, ha potuto sfiorarla: si chiamava Albert ed era un gran centravanti. A Budapest a Puskas hanno dedicato uno stadio. Ocsi e la Grande Ungheria sono rimasti nel cuore dei magiari. Non c'è locale, bar o ritrovo dove si parla di calcio che fuori non esponga insegne con la sua immagine. A Budapest, Ocsi è ovunque. Fu anche grande allenatore. Con il Panathenaikos si giocò negli anni Settanta la finale di Coppa Campioni con l'Ajax di Michels. Fuori Budapest in periferia c'è un locale che si chiama “3-6“ in ricordo della paga inflitta a Wembley agli inglesi (fino ad allora imbattuti in casa propria). Lì Ocsi fece uno dei gol più belli della storia del calcio: finta, controfinta, portiere per le terre, bomba e rete. Di sinistro, ovviamente.

Questo bar l'ho visto io. Tanti anni fa, portato da una “rossa“ fantastica. Una di quelle affascinanti bellezze magiare delle quali ti chiedi: “Ma come fanno ad essere tanto belle?“. Non sapevo invece che in una chiesa di (non rammento più se a Buda o a Pest) la gente vada chiedere “un miracolo“ ad Ocsi come lo farebbe con Santo Stefano, il primo dei sette diaconi, scelti dalla comunità cristiana, protomartire lapidato secondo le modalità della legge mosaica. L'ho appreso dal libro di Diego Mariottini, “Tiki-Taka Budapest: leggenda, ascesa e declino dell'Ungheria di Puskas“.

Mai ascoltate in concerto le musiche di Bela Bartok? Le etnomusiche di origine contadina di Bartok fanno comprendere quella Ungheria. Che era popolare e rurale. Nata in strada come i monelli della via Pal. Quella Ungheria era del popolo, non del regime: era della gente. E anche se non vinse quel Mondiale, la sua leggenda è rimasta intatta nei decenni: più grande dei vincitori. La leggenda degli artisti danubiani: i “ballerini“ di ciarda che incantavano con un pallone.

 

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