I sentieri di Cimbricus / I Giochi che furono e non saranno (piu')
Giovedì 31 Ottobre 2024
Il neopremier laburista Keir Starmer è volato a Samoa per un vertice dei paesi che fanno parte del Commonwealth: nell’agenda dei lavori, anche l’auspicio che i Commonwealth Games abbiano un futuro. Ma non sarà scontato.
Giorgio Cimbrico
Dopo la rinuncia dello stato australiano di Victoria e il rifiuto della Malaysia, per il 2026 è stata rinvenuta bene o male una soluzione: Glasgow ospiterà i Giochi, se pur in formato ridotto, senza hockey su prato, lotta e badminton, con proteste da parte dell’India. Una candidatura del Sudafrica, Durban, per il 2030 potrebbe materializzarsi nel giro di qualche mese ma non è sicuro.
I Giochi tremano. Non resta che rifugiarsi in vecchie storie che danno piacere e procurano attacchi di nostalgia per uno sport sparito, quello che era stato creato e praticato per il gusto di farlo, che era stato esportato ai quattro angoli di un mondo diverso e lontano.
Nel 1911, in pieno clima di festeggiamenti per la fresca incoronazione di Giorgio VI, li chiamarono Inter Empire Championships e si risolsero in una cosetta piuttosto rapida e poco frequentata: quattro paesi, nove gare e fu tutto. Ma l’esigenza di un’Olimpiade imperiale e britannica, specie in un mondo (vedi atlanti dell’epoca) molto colorato di rosa carico (a palmi, un quinto delle terre emerse era cosa loro), continuò a premere sulle ambizioni di chi molto sport aveva inventato, riesumato, codificato, sino alla confezione di quella che viene considerata la prima vera edizione, ad Hamilton, Ontario, nell’estate del 1930.
Erano nati i British Empire Games che tali sarebbero rimasti sino al 1950. A Cardiff, nel 1954, prima revisione dell’etichetta: British Empire and Commonwealth Games che, malgrado la liquidazione della maggior parte delle colonie alla fine dei Cinquanta e all’inizio dei Sessanta, tennero con questo nome sino a Kingston 1966, rilevati a Edinburgo 1970 dai British Commonwealth Games. Da Edmonton ‘78, eliminazione di British: Commonwealth Games e basta. E così, qualche bello spirito ha azzardato che in un futuro non lontano, popolato magari dalle repubbliche di Scozia e d’Australia, rimarranno soltanto i Games. E ora sono in pericolo anche quelli.
Una premessa: ai Giochi non ha mai partecipato e non partecipa la Gran Bretagna, ma la sua realtà parcellizzata: Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord, Isola di Man, la minuscola e bella Jersey. A dare consistenza e a renderli la terza rassegna multisport dopo Olimpiadi e Giochi Asiatici, ci sono i dominions, quelle poche colonie rimaste (Bermuda, St Helena, Tristan da Cunha), i paesi che non hanno lasciato la vecchia orbita o che, come il Mozambico, l’hanno raggiunta, un vecchio nemico (il Sudafrica), le isolette amministrate da un commissioner reale, le dipendenze.
Gli arcipelaghi del sud Atlantico e dell’Antartide non partecipano perché le gare di nuoto non sono aperte anche a foche, orche e elefanti marini che costituiscono le popolazioni locali.
In atletica l’Inghilterra guida davanti all’Australia. Il Kenya è quarto dietro al Canada. La Giamaica è quinta. Pagine che meritano di esser sfogliate, sinché c’è saliva, cominciando dal “Miracle Mile” del ’54 a Vancouver, quando Roger Bannister infilò John Landy centrando la “seconda mano” del suo slam: aveva cominciato con il primo sub 4’ nel Miglio e avrebbe proseguito a Berna, con il titolo europeo del miglio metrico. Sul foglio gara di Vancouver è stampato: 1) Dr Roger Bannister. Giusto, si era appena laureato in medicina. Il Dottor Bannister, suppongo. Quel sorpasso è diventato una statua in bronzo provocando una magnifica celia di Landy: “La moglie di Lot si voltò e divenne di sale. Io mi voltai e sono diventato di bronzo”.
Vent’anni dopo, la coraggiosa corsa di Filbert Bayi, tanzaniano leggero come una piuma. “From gun to tape”, dicono gli inglesi, dalla pistola al nastro, per trasmettere con un paio di immagini il valore e la virtù di chi parte in testa e in testa arriva alla ricerca di nuovi territori. Si correva sulla pista di Christchurch, Nuova Zelanda, e così il pubblico bramì come un cervo in amore quando, al suono della campana, John Walker, lunga chioma scompigliata dalla brezza che lui stesso stava creando, si lanciò all’inseguimento dell’africano.
Se Bayi chiuse l’ultimo giro in 55”4, tutt’oggi parziale di prim’ordine, Walker fu un secondo netto più veloce: per il neozelandese significò finire in 3’32”52, sotto il record del mondo (3’33”1 di Jim Ryun), ma Bayi conservò quel che bastava di un vantaggio che era enorme e si ridusse a pochi palmi: 3’32”16. Fu la più grande gara della storia: Ben Jipcho chiuse sul tempo di Ryun (3’33”16), Rod Dixon non ebbe un posto sul podio transitando sul traguardo in 3’33”89, Graham Crouch in 3’34”22 strappò a Herb Elliott un record australiano dei 1500 che aveva la struttura della leggenda: era il tempo che aveva consegnato all’Imbattibile di Subiaco, Western Australia, l’oro olimpico e il record del mondo ai Giochi di Roma.
I Giochi del Commonwealth hanno avuto molti significati (uno è stato quello di consegnare all’atletica la nascita di una nuova nazione, di una futura potenza: nel ’58, a Cardiff, terzo nelle 6 Miglia Arere Anentia, Kenya, il primo di una serie sterminata) e hanno regalato palpiti, specie nello sprint. Come a Edmonton ’78 quando Donald Quarrie riuscì a contenere la furia di uno scozzese che partiva in piedi: 10”03 il giamaicano, 10”07 Allan Wells, 10”09 Hasely Crawford, campione olimpico in carica, offre il rapporto ufficiale. Quattro anni dopo, a Brisbane, a sua volta con la corona olimpica in testa, Allan sarebbe sceso a 10”02 contenendo per tre piccoli centesimi la corsa violenta di un canadese nativo della Giamaica: un certo Ben Johnson.
Next > |
---|