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Piste&Pedane / In memoria di "al Pedar", profonda nobilta' operaia

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Sabato 13 Luglio 2024

pastorini


Se n’è andato da poche ore Pietro Pastorini, una vita agra come la sua illuminata dallo sport come missione, dalla marcia come ragione di vita. Quanti sono i marciatori che ha portato in Nazionale e a scalare podi mondiali e olimpici?

Daniele Perboni


Pietro "Pedar" Pastorini, vecchio amico dalla pelle rugosa, hai lasciato la compagnia, sei andato avanti per raggiungere la tua amata Maria che ti ha sempre seguita docile e accondiscendente sin dal 18 maggio del 1963. Per oltre sessant’anni non hai fatto altro che “rompere” le scatole all’intero universo mondo, con un solo obiettivo: divulgare il verbo del tacco e punta, far marciare tutti, indistintamente. Bambini, adolescenti, uomini maturi, anziani. (nella foto, Pietro coll'indimenticato direttore della Gazzetta, Candido Cannavò).

Se qualcuno ti disturbava ecco che partiva la reprimenda con quella voce roca e inconfondibile. Quello che hai dato alla specialità è sotto gli occhi di tutti. E tutti conoscono ormai i campioni che hai fatto maturare sotto le tue ali e con i tuoi insegnamenti: da Gianni Perricelli a Michele Didoni; da Erika Alfridi all’ultimo atleta portato in nazionale Stefano Chiesa. Fiumi d’inchiostro verranno scritti sulla tua lunga carriera di allenatore, organizzatore e di “padre” putativo di tanti grandi e piccoli specialisti.

Personalmente ti voglio onorare con ricordi inediti, svelati al sottoscritto in lunghe serate, talvolta terminate a notte fonda, in occasione dei nostri incontri in preparazione del libro che uscì all’inizio del 1987. Ci univa, allora, un grande amore per l’atletica e per la marcia e una terra in comune. Quella Lomellina a cui ti eri riavvicinato dopo decenni vissuti a Quarto Oggiaro. «Vivevo in affitto in una casa popolare. Quando la sindaca Letizia Moratti decise di dismetterle e venderle a chi le abitava mi accorsi che i soldi non mi sarebbero bastati. Il mercato immobiliare milanese era improponibile per chi, come il sottoscritto e tanti altri vivevano con stipendi normali da operai, impiegati, piccoli artigiani. Così sono ritornato alle origini, a Lomello, con gran dispiacere di mia moglie. Proprio lei che non ne voleva sapere di trasferirsi nella grande città».

Ci era andato, a Milano, per cercare lavoro e migliorare le sue condizioni economiche. «Per alcuni mesi ho vissuto a casa di uno zio, ex pugile, che mi ha introdotto nel mondo dello sport. La sera andavo a cena in una mensa operaia. La prima sera ci sono entrato accompagnato da lui. La sera dopo ero solo, mi vergognavo, non sapevo come comportarmi. Sono rimasto digiuno. Oggi sarei capace di pranzare anche nei migliori hotel del mondo pur non conoscendo la lingua».

Ho ritrovato le bobine di quegli incontri: 35 ore di registrazioni, viaggi al Sestriere in occasione dei raduni in altura per ascoltare le voci di Gianni Perricelli, Michele Didoni e i rispettivi padri. Lunghe ore passate nel fumoso bar di Lomello per sentire i racconti dei vecchi amici d’infanzia.

«Sono andato all’asilo di Galliavola, piccolo villaggio di trecento anime poco distante da Lomello. Era gestito dalle suore che per tenerci buoni ci regalavano continuamente piccole pastiglie di zucchero colorato. I famosi tripolini. Se chiudo gli occhi risento ancora l’odore di quell’asilo e delle vecchie suore. Poi la guerra. Per noi nati pochi anni prima la guerra era una cosa normale. Era sempre esistita, non si concepiva una vita diversa. Le sera si spegnevano tutte le luci e si oscuravano le finestre. Regolarmente passava un aereo a bassa quota che mitragliava tutto quello che luccicava. Il famoso Pippo».

Sorrideva Pedar fra una sigaretta e l’altra, fumate con una continuità quasi esasperante. «Finite le medie tutti a lavorare nelle fabbriche di Vigevano. Si prendeva la corriera e dopo quasi due ore dai viaggio, per 35 chilometri, si arrivava a destinazione. Poi ho trovato lavoro in un caseificio, prima a curare i maiali e poi a fare il formaggio. Finché il famoso zio mi disse di provare la fortuna a Milano. Ero titubante ma ci andai. Vinsi un concorso nel comune di Milano come lettore dei contatori di acqua e gas. Ogni giorno in giro a piedi o in bici, pioggia, vento, neve, sole. Si doveva andare. Quando mi hanno assunto credevo fosse difficile fare il controllore invece… Difficile era fare il formaggio. Ho avuto colleghi di una ignoranza incredibile. Eppure mi vergogno ancora di non evere studiato». Con genitori contadini in un piccolo paese della profonda Lomellina questo era il destino di tutti o quasi.

Fu in quegli anni, 1965, che conobbe la marcia, grazie a un catanese emigrato a Milano, Natale Rinciari. «Le prime gare le ho fatte a 28 anni». Sempre in quegli anni si tesserò per l’AICS Milano, società politicamente legata al Partito Socialista. «Era una piccola realtà e avevamo anche compiti di dirigenza. Ci allenavamo da soli. Ogni martedì sera si andava in sede a spedire lettere di convocazione alle gare». All’inizio Pietro considerava il gesto della marcia un po’ anomalo, ridicolo. «Poi, superata la vergogna di sculettare mi sono appassionato in maniera esagerata».

Una data storica per Pietro è il maggio del 1975. Nell’espletare il suo lavoro di controllore entra in una specie di tomba per leggere il contatore dell’acqua. C’è pure un tubo di gas propano, inodore, che perde. Una scintilla e… le fiamme lo avvolgono completamente. «Camicia e pantaloni prendono fuoco. Fortunatamente la tuta del Comune era ignifuga. Cerco di spegnere le fiamme con le mani. Mi strappo i vestiti. Resto nudo. Dopo trenta secondi avevo le mani rattrappite. Ustioni di primo, secondo e terzo grado su tutto il corpo. Barba, capelli e peli tutto bruciato». Resta degente per un mese. La terapia anti dolore non può essere praticata agli ustionati. Le cure sono di un dolore «Insopportabile, indescrivibile». Il suo vicino di letto quando vede gli infermieri lo avverte: Pedrin ariven. Poi si mette a piangere. 

Il ragazzo ex contadino supera anche questa tragedia e riprende a vivere. Si dedica al sindacato. «Volevo tutelare in ogni maniera la salute degli addetti alle letture». Nel frattempo l’atletica diventa quasi una ragione di vita. Pietro riesce a concretizzare il suo grande sogno, portare lo sport nel quartiere.

Pian piano l’attività aumenta ed ecco arrivare la ginnastica per adulti, il basket, la pallavolo, il twirling, il karate, il ballo liscio e la danza jazz. E poi il Trofeo Frigerio, voluto da Mario Meneguzzo, ex marciatore che ha vestito anche la maglia della Nazionale.

Da allora al Pedar non si è più fermato sino a sabato 13 luglio. Un addio, il suo, avvenuto in solitudine nel letto di un ospedale. «Non aveva più voglia di vivere» mormora commosso Gianni Mauri, ex marciatore, presidente del Comitato Regionale Lombardo e “figlio” di Pietro.

Scrivendo queste righe mi accorgo di essere un poco colpevole del sentimento di abbandono provato da Pietro negli ultimi giorni. Chiedo perdono, Pietro. Mi resta quel libro a cui abbiamo dedicato tante serate che hanno permesso di conoscerci a fondo.Ti saluto prendendo in prestito le ultime parole di “Amerigo”, bellissima canzone di Francesco Guccini: “[…] Finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarti …”.

 

 

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