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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
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Duribanchi / Volevo essere come Jerry West

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Domenica 16 Giugno 2024

 

            jerry_west 


“Se n'è andato qualche giorno fa a 86 anni: leggenda del basket. Uno clamoroso. Un solo titolo NBA da giocatore, ma una sfilza di record, al college e poi da allenatore e da dirigente dei Lakers che neppure ci provo a metterli in fila”.

Andrea Bosco

Era di agosto, anno del Signore 1960: Olimpiadi di Roma. Si gioca USA-Italia. E finisce tanti a pochi. Ma per qualche tempo l'Italia del professor Paratore tiene botta. Ha Vittori, Vianello, Pieri, Riminucci, Giomo, Calebotta. E ha Lombardi il livornese che Paratore ha trasformato da pivot in un esterno d'attacco. Dado Lombardi ha altezza (1.95), ha peso, ha piedi velici e mano educata. Ne mette 23 agli yankees e finisce nel quintetto ideale delle Olimpiadi.

Ma quegli altri sono una cosa assurda: hanno Oscar Robertson, che è Jordan prima di Jordan. Hanno Lucas, Bellamy, Imhoff, hanno Boozer e un folletto Lester Lane che gioca playmaker. Sono talmente forti da permettersi il lusso di aver escluso dalla loro nazionale, prima del viaggio a Roma, uno come Havlicek. Mi folgora il più elegante: Jerry West. Ha un tiro (anche se allora non esisteva quello da tre punti) pazzesco. Difende come non avevo mai visto fare a nessuno sul parquet, neppure a Pieri. E' un “cacciatore“: uno che “ruba“ i palloni agli avversari meglio di quanto non facesse Bertini.

Ma soprattutto è intelligente: li manda a canestro tutti come se li teleguidasse. E' 1,91, neppure tanti, neppure nel basket di quei tempi. Se n'è andato Jerry West qualche giorno fa a 86 anni: leggenda del basket. Uno clamoroso. Un solo titolo NBA da giocatore, ma una sfilza di record, al college e poi da allenatore e da dirigente dei Lakers, che neppure ci provo a metterli in fila: mi servirebbe un tomo della Treccani. Uno che ai Laker portò Kobe con un capolavoro (cedo Divac e prendo i diritti del ragazzino) e Shaq che era free agent, consentendo ai californiani di fare man bassa di titoli. Dico solo che il più significativo dei suoi soprannomi era “Mister Logo“. E questo perché quel giocatore stilizzato “in entrata“ nel logo della NBA, quello che tutti conosciamo, è lui, Jerry West, l'enciclopedia del basket.

Potrei dilungarmi in cento episodi: e altri cento mi resterebbero da raccontare. Quindi voglio ricordare quel giocatore, che (purtroppo) sono riuscito a vedere solo in televisione ammirandolo e sognando di poterlo imitare, con un episodio personale. Un mese dopo l’Olimpiade torno (in prima liceo classico) nell’istituto dove da anni studio. Vado dal mio allenatore di basket e gli dico: “Voglio diventare come Jerry West“. Giocavo discretamente a calcio, ma il mio sogno era eccellere nel basket dove peraltro non avevo qualità (a parte una discreta precisione nel tiro), incapace di leggere gli schemi, incapace di difendere e troppo individualista per “vedere“ oltre al canestro, anche i compagni. Sognavo di poter diventare come Jerry West. Ma il mio “sogno“ durò pochi minuti.

Il mio allenatore, lanciandomi il pallone, disse: “Entra di mano sinistra“. Io e il canestro solamente: nessuna opposizione. Ma io non sono mancino. Palla sul ferro davanti, pur non avendo alcuno a contrastarmi. Lui sorride e dice: “Capisci perché è impossibile?“. Io capii. Anche se per alcuni mesi mi sforzai di migliorare. Ma non avevo talento e alla fine, inevitabilmente, mi arresi. Diventato adulto e seguendo da lontano, dall’altra parte del mondo, la carriera di Jerry West, ogni tanto mi veniva da sorridere pensando a quanto avevo desiderato. Una sera in redazione in Piazzale Duca D’Aosta a Milano, al Guerin Sportivo lo dissi ad Aldo Giordani con le cui pagine collaboravo. Lui che era un uomo dotato di genuino umorismo e che West lo aveva visto dal “vivo“, disse: “Peccato ti siano mancati solo dieci centimetri“.

Jerry ha raggiunto nel Paradiso dei cestisti Bill Walton, anche lui da poco uscito dallo spogliatoio. Incontrando Franco Lombardi, probabilmente gli avrà chiesto: “Ma perché non hai accettato di venire nell’NBA?“. Ci metto la firma che la risposta di “Dado“ quasi certamente è stata: “Perché negli Stati Uniti non si mangia come a Bologna. E perché le americane non sono spiritose come le bolognesi“.

Poi penso che da Lakers che detestava i “verdi“, Jerry si sia tolto lo sfizio di guidare i tiri di Doncic e Irving che hanno “piallato“ Boston in gara 4, consentendo a Dallas di allungare la serie. Tatum e soci sono favoriti visto che conducono per 3-1. Ma hai visto mai? Jerry perse un titolo contro New York del “resuscitato“ Reed, sceso in campo infortunato e praticamente con una gamba sola. Gara 5 al T.D. Garden sarà fondamentale e forse conclusiva. Ma se Jerry, potrà, intercederà presso gli dei del basket. In fondo si gioca al meglio di 7 partite. E teoricamente tutto è ancora possibile.


La detestata “italiana”

Caitlin Clark è il nuovo fenomeno del basket femminile USA. Guardia di 1.86, ha un tiro pazzesco che al college le ha fatto polverizzare il record del mitico Pete “Pistol” Maravich (che lo deteneva con la surreale media di 44,2 punti a gara in una stagione). Anche se a dire il vero, quando “Pistol” giocava al college, il tiro da tre punti non esisteva e ovviamente la sua media resta imparagonabile.

E’ venuto fuori che Clark (esclusa dalle convocazioni olimpiche per Parigi, anche pare per le gelosie delle veterane che mal la sopportano e che sul campo hanno avuto con lei un paio di incontri “ravvicinati”) ha origini italiane. Sua madre, Anna Nizzi, è figlia di immigrati. L’approdo di Clark in WNBA con le Indiana Fever, scelta al primo giro del draft con la numero uno, è stato devastante. Tutti la vogliono vedere. I palazzetti si riempiono e le televisioni che trasmettono il basket femminile stanno facendo ascolti record. Così, il podcaster Dan “Big Cat“ Katz che conduce “Pardon My Take“ di Barstool Sport ha proposto provocatoriamente che Clark giochi con la Nazionale italiana.

L’Italia, come noto, non è riuscita a qualificarsi per le Olimpiadi. Ma nel caso (improbabile, va detto) che le gelosie delle rivali continuino ad emarginarla, potrebbe anche accadere. Clark sarà un pilastro delle Usa nel prossimo decennio, ma se la talentuosa Caitlin optasse per gareggiare accanto a Matilde Villa e a Cecilia Zandalasini, garantito che riempirebbe ogni palazzetto italiano ed europeo. E le “azzurre“ diventerebbero una delle formazioni più temute del pianeta. Sono solo giochi giornalistici. Ma, in fondo, paragonati al “calciomercato“, quasi realistici.


Chi la fa, l’aspetti

Ha vinto Milano, senza se e senza ma, nonostante le recriminazioni dell’ambiente Virtus, nonostante gli striscioni della sua tifoseria (“Siete come Siena“), nonostante il poco fair play di Banchi che anche dopo lo scemare dell’adrenalina, ha insinuato, lamentandosi degli arbitraggi e dei “troppi“ tiri liberi concessi alla squadra di Messina. Che ha vinto il suo settimo personale scudetto, regalando il tricolore numero 31 all’Olimpia, onorando i 90 anni del patron Armani, genio del fashion e della moda. Dei giocatori e di come siano riusciti a vincere (e i bolognesi, nonostante l’immenso Pajola, abbiano invece dovuto ammainare bandiera bianca) racconterà, come io non saprei fare, l’Orso.

Ma visto che io sono tifoso della Reyer, da quando sul parquet della Misericordia, indegnamente al Torneo delle Scuole (assieme a Paolo Zanon, mio compagno alle medie) ci giocavo, una lisca mi è rimasta sul gozzo dopo la serie della Reyer contro la Virtus. E quindi dico: “Chi la fa, l’aspetti”. Banchi vada a rivedersi i finali di gara 1 e 2 della serie contro Venezia. Dai miei studi universitari su Publilio Siro (condotto a Roma da Antiochia come schiavo e diventato ottimo drammaturgo) e dalle sue “Sentenze” ricordo: “Quando la fortuna lusinga, lo fa per tradire“.


I Bassotti di Dan

Mi è arrivato a casa un libro che Dan Peterson, gentilmente, mi ha fatto pervenire dalla Rizzoli. Si intitola “L’abc del basket“ nel quale il coach spiega i fondamentali e i segreti dello sport dei canestri. Con i contributi di Pozzecco, Meneghin (Dino), D’Antoni, Ettore Messina, Gallinari (Vittorio), Mordente, Datome, Hines, Luca Banchi, Hackett, Belinelli, Bonamico. Insomma molti tra i migliori di sempre, alcuni dei quali ancora in attività. Con i disegni (del coach) anche alcuni dei suoi ricordi.

Il primo capitolo si intitola “La banda Bassotti“: l’Olimpia del 1978-79 che aveva congedato i big: da Brumatti a Iellini, da Bariviera a Masini a Ceroni. In squadra il coach si era ritrovato i fratelli Boselli, Anchisi, Friz, Battisti e Vittorio Gallinari: ragazzini. Tutti davano l’Olimpia per spacciata e destinata alla retrocessione. Ma la Banda (Peterson scrive che il nome fu inventato da Oscar Eleni, e se non ricordo male fu proprio lui) motivatissima trovò una “identità“ e fece bene. Non mi dilungo: il libro va centellinato. Non sento Dan da molti anni, ma mi ha fatto veramente piacere si sia ricordato di me. E di Andy Wood.

 

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