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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
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Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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(le oltre 400 testate dimenticate)





I sentieri di Cimbricus / "Fiasco" ovvero il passo del gigante

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Lunedì 26 Giugno 2023

 

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Cadrà domani il cinquantenario di una delle più straordinarie pagine dell’atletica italiana: il celebre 1’43”7 con cui il figliol prodigo Marcello “March” Fiasconaro riscrisse senza interlocutori il record mondiale dei nobili 800.

Giorgio Cimbrico

Meglio fare da solo. Due anni prima, a Helsinki, gli avevano detto di tener d’occhio il polacco Werner: March lo aveva tenuto d’occhio, lo aveva marcato, e così gli era sfuggito, al largo, il roseo David Jenkins, scozzese nato a Trinidad. Secondo a un Europeo, da apprendista. Due anni dopo e mezzo secolo giusto domani, Marcello Fiasconaro fece da solo e inventò il passo del gigante: il record del mondo degli 800 all’Arena di Milano – stesso luogo dove Rudolf Harbig, nell’estate che avrebbe portato la guerra, aveva tracciato nuove frontiere – ancora primato italiano, 1’43”7.

Lo avvicinò quel buonanima di Donato Sabia e nei pressi arrivò, sino in un certo senso ad uguagliarlo, Andrea Longo, poco prima dei Giochi di Sydney: 1’43”74 a Rieti, fabbrica di tempi stordenti sul mezzo miglio e non solo. Quel giorno il padovano sostenne di essere il nuovo primatista (“quello è un tempo manuale, il mio è elettronico”) e ne nacque un’accesa discussione, quasi un alterco, interrotto e spazzato via dall’ironia di Corrado Sannucci. “Ah Longo, avessi fatto 1’43”69 non saremmo qui a rompece i cojoni”.

In quel momento era passato più di un quarto di secolo e quel record era già ammantato dal fascino del tempo profondo, testimoniato da quelle immagini in bianco e nero, stampate o in movimento, che lo mostrano scavallar via, liberarsi senza indugi del ceko Jozef Plachy (che nella sua lontana scia ottenne il record nazionale, 1’45”7), scuotere la lunga criniera, andare a placcare il tempo, incidendo con quei due giri in 51”2 e 52”5 la linea di confine che sino a quel momento aveva tenuto al largo del sub 1’44” l’All black Peter Snell, l’aussie Ralph Doubell e Dave Wottle, l’americano che partiva da dietro e correva sempre con un cappellino piantato sul cranio.

L’uno, l’altro e l’altro ancora rappresentano l’albo d’oro olimpico dal 1960 al 1972. E chi gli tolse il record, Alberto Juantorena, lo fece proprio nella finale di Montreal ‘76, imitando il percorso dell’uomo di Città del Capo: il quattrocentista, anche di potente complessione, poteva essere il perfetto interprete di questa strana, affascinante distanza che non si sa bene a quale famiglia appartenga: mezzofondo “corto”, velocità molto allungata, terreno di dura lotta fisica o di sublimi intuizioni: come quelle che ispirarono il Rudisha londinese.

Marcello aveva dentro di sé la forza, il desiderio di lotta, ed è scontato dire che queste umanissime inclinazioni derivassero dalla frequentazione, sin dalla più tenera età, con lo sport che in Sudafrica è costume di vita: il rugby. Non era calligrafico, non era il levriero che esce di cancelletti. Qualcosa di più brutale, istintivo. Piaceva per la dote che aveva dentro, nel codice, nei muscoli. E tutto questo produceva il coraggio.

A quel tempo non si parlava di fenomeni mediatici, ma Fiasconaro in quello finì per trasformarsi. C’era tutto nella sua storia, nei suoi sviluppi, nella sua calata nella “terra dei padri”, nel titolo europeo dei 400 mancato per un soffio, nelle sue sfortune fisiche che lo derubarono di un ruolo a Monaco di Baviera, nella sua espressione desolata dopo l’ingiusta squalifica di Oslo, nei suoi riscatti, nei suoi assalti perché la gente, e non solo i suiveur di più stretta osservanza, non finisse per amarlo. E una delle prove più solide è costituita dai diecimila che popolarono il Palasport di Genova, la sera del 15 marzo 1972, per il suo attacco al record mondiale dei 400 al coperto, sparring partner il piccolo e tosto polacco Andrzei Badenski. La missione fu compiuta in 46”1 e in un boato che durò quanto la corsa.

Il Marcello invitto fu l’interprete della finale degli Europei del ’74: acciaccato, zoppo, passò in testa alla campana in un 50”14 che qualcuno definì folle ma che in realtà apriva nuove frontiere, prima di arrendersi al dolore e rompere come un trottatore che perde ritmo e direzione. Fu il suo canto del cigno e la prima apparizione in scena di un giovanotto di Brighton dalla barba stenta e l’espressione beffarda: Steve Ovett. Tutte le storie dell'uomo hanno un principio, ma anche una inevitabile fine.


 

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