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I sentieri di Cimbricus / Come va letto il 57-0 agli Springboks

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Domenica 17 Settembre 2017

rugby 2

di Giorgio Cimbrico

Chissà se le dame sudafricane emigrate a Auckland saranno andate dal capitano degli All Blacks  Kieran Read recando un sacchetto ricamato e annunciando con la contrizione del caso: “Ecco le ceneri del rugby sudafricano”, da conservare come uno scalpo, come il bottino finale di una lunga guerra, come il simbolo di una resa senza condizioni, quelle che piacevano al generale Ulysses Simpson Grant: U. S. sono anche le iniziali di unconditional surrender.

Il 57-0 dello stadio di Albany può esser letto partendo dall’impietosità di un tabellino che offre otto mete, quattro per tempo, dei neozelandesi o scorrendo un riassunto (highilights) di immagini altrettanto impietose: un’accelerazione per bucare la difesa, un’area di contatto e di scontro che si esaurisce sempre con lo stesso vincitore, un moltiplicarsi di opzioni di gioco opposto a chi ne ha una sola, e confusa, sterile, in costante arretramento.

Ma tutto questo repertorio appartiene alla cronaca, come le parole accorate dell’ex capitano Jean de Villiers: “Pensavamo di aver toccato il fondo un anno fa (al King’s Park di Durban, finì 15-57 per i Neri), ma ora siamo finiti ancora più in basso”. Alistair Coetzee, il ct, è stato più sintetico. “Troppo forti per noi”.La verità è che ad Albany è stata scritta la storia di una sparizione voluta, pianificata da chi, nel paese arcobaleno, ha le leve del potere e vendette da consumare. E anche se il piatto ormai è gelido, si ingurgita lo stesso.

Il nuovo Sudafrica, quello nato dopo le tenebre dell’apartheid – l’arida stagione bianca, l’ha chiamata uno scrittore – è stato illuminato, proprio nel segno del rugby, dal sorriso di Nelson Mandela che, la maglia numero 6 addosso, stringeva la mano ai sudafricani e ai neozelandesi che stavano per dar vita alla finale mondiale del ‘95. E’ stato tutto narrato in “Ama il tuo Nemico”, su carta, e in “invictus”, per fotogrammi. Mandela era Morgan Freeman; Francois Pienaar, capitano degli Springboks, era Matt Damon.

Quella vittoria divenne la vittoria di un paese e nessuno, in quei momenti, rinfocolò l’idea che il rugby era il simbolo del potere bianco, boero-ugonotto e tedesco, intollerante, violento, crudele. L’idea di riconciliazione portata avanti da Mandela era così vasta, ma anche così sottile e intelligente, da irrompere in ogni campo. Fu Mandela a dire a Pienaar. “Porta i tuoi uomini dove mi tenevano in galera”. E Pienaar li portò a Robben Island battuta dal vento e quei boeri che chiamavano i neri “cafir”, davanti a quella piccola cella, piansero. E il numero del detenuto Mandela, 46664, finì stampato sulle maglie.

Quando Mandela era ancora vivo, qualcuno disse che era l’ora di finirla con quell’antilope, che quelle gazzelle erano il simbolo del potere bianco, dell’apartheid, del sopruso, che era venuto il momento della protea. E il Vecchio disse che non era il caso, così come aveva voluto che nel nuovo inno fosse mantenuto un brano di “Die Stem”, in olandese. La vecchiaia, la malattia lo allontanarono da un paese che si allontanava da lui. Il potere era passato nelle mani di chi non valeva una sua unghia, Corrotti, incompetenti, incapaci di controllare un paese ricco e poverissimo, allegro e disperato.

L’apparente leggerezza, la concreta fantasia al potere del Madiba non ha trovato un erede, solo dei mediocri, dei burocrati, degli apparatnik buoni per vecchie storielle sul mondo sovietico.
Una delle prodigiose invenzioni è stata quella delle quote nere per gli sport di squadra, con l’obiettivo di arrivare in tempi brevi a un fifty-fifty. Ovviamente, nessuna attenzione al calcio dove, da sempre, i Bafana Bafana sono tutti neri, o al cricket, un cocktail più complesso di boeri, britannici, neri e indo-pakistani.

Il riflettore, come quello usato nel terzo grado, è sempre e solo puntato sul rugby da cui i neri erano sistematicamente esclusi. O meglio, anche lì subivano l’apartheid: una federazione bianca, una federazione nera, una federazione per i coloured, che noi tradurremmo meticci. Gli azzurri del rugby che nell’estate del ‘73 giocarono contro i Leopards, la nazionale nera, a Port Elisabeth strabuzzarono gli occhi quando videro che i pochi bianchi in tribuna erano chiusi in una recinzione, con guardie armate attorno.

E così, pensando a quella lunga tenebra, e non alle luci che Mandela ne aveva fatto scaturire con l’acciarino del suo genio, hanno deciso di offrire quella che, a prima vista, sembra una giusta e democratica opportunità, senza dar peso al valore, alla cifra tecnica, alla tradizione. Ai Mondiali di atletica di Londra il Sudafrica aveva un squadra per sette ottavi nera e coloured, come è giusto che sia per un paese che sin da Rio ha spedito negli azzurri spazi Wayde van Niekerk e ha un lunghista, Luvo Manyonga convinto di poter atterrare a 9 metri.

Il risultato è che molti sudafricani (bianchi) vanno in Francia e in Inghilterra, alcuni in Irlanda, Scozia e Giappone. Mettono da parte quattrini e mettono da parte anche l’idea di vestire la maglia verde come il veld a primavera e oro come quello che da un secolo abbondante viene estratto dal Rand. Meglio che scaldare una panchina in patria.

E così gli Springboks non sono più quelli che per sessant’anni tennero testa agli All Blacks. Oggi i neozelandesi li prendono per le cornine e li trattano come gli agnelloni dei loro pascoli: quello è buono per la lana, quello per il macello.  

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