- reset +

Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

Gianfranco Colasante
BRUNO ZAULI
“Il più colto uomo di sport”




Gianfranco Colasante
MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
La stampa sportiva italiana
dall’ Ottocento al Fascismo
(le oltre 400 testate dimenticate)





Cent'anni Primo / L'uomo che non ha lasciato eredi

PDFPrintE-mail

Venerdì 14 Luglio 2023

 

          nebiolo-1 


(gfc) Cade oggi il primo secolo dalla nascita di Primo Nebiolo. Le sue visioni e i suoi tormenti hanno rovesciato e riscritto l’atletica e cambiato per sempre lo sport. Dall'osteria al Grand Hotel, amava ripetere. Non c’erano mezze misure nel suo mondo: o lo si osannava o lo si detestava. Cittadino del mondo, era un uomo solo. Non aveva amici, preferiva i sudditi. I più lo temevano, pochissimi avevano cuore per contestarlo. Ma le sue intuizioni anticiparono i tempi e disegnarono scenari impensabili. La sua storia? Una lunga parabola: venti anni per salire, una sola notte per cadere colpito alle spalle. Il suo lascito: una gualcita e ingiallita pagina vuota. Pochi dirigenti dello sport italiano hanno lasciato tracce tanto profonde come ha saputo fare l’uomo di Scurzolengo. Ma ad ogni stagione che passa, la sua figura sbiadisce nella memoria: è sempre imbarazzante, quanto inutile, confrontarsi con i numeri primi. Il suo ricordo - come informa l'autorevole sito federale - è oggi affidato ad una strada che gli hanno intitolato ... in Romania. La mediocrità resta il tratto dominante e scolorito della nostra epoca senza certezze. E l’atletica – e lo sport intero, con le sue malferme gerarchie – non possono certo costituire l’eccezione.

Giorgio Cimbrico

“Ti do il mio dolcetto se mi dai il tuo camembert”. Accettai lo scambio. Eravamo seduti, fianco a fianco, nella business class dell’Air France, diretti a Parigi. Era la prima volta che ero solo con lui. Ero in imbarazzo, non sapevo come comportarmi. Provare a parlare, aspettare che parlasse lui. Prima di salire a bordo avevo peccato di goffaggine: lui passava attraverso i controlli come Mosè attraverso il Mar Rosso, salutato da finanzieri e poliziotti, estraneo all’idea di dover estrarre un documento. Io arrancavo dietro, mostrando il passaporto e ricevendo benevole occhiate. Anche per lo scudiero poteva esser usata benevolenza.

A Parigi, per l’inaugurazione del Palais Omnisport di Bercy, poco prima del Natale 1984. Faceva un freddo feroce e sullo Charles de Gaulle la nebbia era compatta e gelida come quella che Maigret trova al risveglio in boulevard Richar Lenoir. Primo declinò l’invito a cena del presidente francese Dasriaux: “Abbiamo mangiato a bordo e molto bene”. Era vero: il bue alla borgognona era ottimo. E il bicchierino finale era colpo di armagnac.

La mattina dopo uscii che faceva ancora buio per comprare i giornali: un buon assistente compra sempre i giornali. Il freddo era anche peggio: prendeva naso e ginocchia.

Inaugurazione: Nebiolo mi presentò a Jacques Goddet (che abitava lì vicino, in un vecchio palazzo che si era salvato dalle demolizioni) e provai una commossa emozione. Dopo i discorsi e il brindisi, mi ospitarono alla federazione francese, in una traversa dei Grands Boulevards. Chiesi a Frasca, che era rimasto a Roma, cosa dovevo fare e in realtà fu lui ad accollarsi la maggior parte del lavoro. Al ritorno ero solo: Nebiolo prendeva un volo per Torino. Il menù dell’Italia non era pari a quello dell’Air France. E’ sufficiente citare il famigerato spumante Azzurra. Il viaggio a Parigi fu una specie di iniziazione.

Rispetto ai primi incontri – per il lancio dell’attività indoor in Italia – Nebiolo era cambiato. Vestiva con una certa ricercatezza nei toni del grigio ferro e portava sempre camicie con il collo alla francese. Quando sedeva al suo tavolo da lavoro, spesso stendeva i piedi sulla scrivania. Poteva capitare che calzasse stivaletti.

Una sera, a Torino, lo sperimentai al volante. Era allegro e senza pensieri e si divertì a telefonare a vecchie fiamme. I telefonini non esistevano e si serviva delle cabine, come uno studente in vena di burle.

Di Chicago credo di aver già parlato ma ripetersi non è poi un delitto. Volo da Milano per Chicago e poi da lì a Indianapolis per i primi Mondiali Indoor, marzo 1987, un’altra delle sue invenzioni. All’arrivo a Chicago cala dalla prima classe ed è costretto a mettersi in coda con noi mortali. Comincia a mugugnare e a bofonchiare. Ma il risentimento diventa ira – e una colorazione del viso tra il viola e il verdastro – quando, da oltre lo sbarramento, vede sbucare un distinto giovanotto in cappotto di cammello che prende a braccetto Piero Ottone e gli fa evitare l’attesa per i controlli. “’Sticazzo di americani non hanno previsto niente”, sibila. A dire il vero ha ragione: nessuno lo attende neppure a Indy ed è costretto a prendere un taxi. Chissà come pagò: di solito viaggiava a tasche vuote.

Nei luoghi dove andava era convinto di portare qualcosa di così importante da costringere ad accantonare i problemi quotidiani. E così – facciamo un passo indietro, a inizio ottobre 1985 –, quando un giornalista fece presente che l’amministrazione comunale di Canberra si era impegnata finanziariamente per la Coppa del Mondo dopo aver promesso interventi sulla rete fognaria della capitale federale australiana, offerse per i più intimi quel suo tono piagnucoloso che usava nei momenti di dispetto: “Ho portato qui i migliori atleti del mondo e questi mi parlano delle loro fogne”. Lo rabbonì quel buonanima di John Holt, al tempo segretario della IAAF: “E’ un piccolo giornale locale, Primo”.

Ai Mondiali di Siviglia del 1999 aveva perduto il suo slancio vitale. Ci invitò a un pranzo nell’atmosfera moresca e lussuosa dell’Alfonso XIII e al momento del congedo, avviandosi verso l’uscita, prese a braccetto me e Giorgio Barberis. Sentimmo il suo corpo rilasciarsi sulle nostre braccia. Era stanco.

 

 

Cerca