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Duribanchi / Addio a Luisito, l'architetto del calcio

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Martedì 11 Luglio 2023

 

suarez-luois


“Sembrava impossibile riuscisse a fare i ricami che esibiva sul prato. Suarez aveva il “dono“. Il “dono“ è cosa di pochi. Per rivedere un calciatore con quelle qualità, l'Italia ha dovuto attendere Platini, Falcao e in tempi più recenti Pirlo”.

Andrea Bosco

Sul muro della sua casa natale a La Coruña, in Galizia, una piccola targa in pietra recita: “Qui nacque Luis Suarez, architetto del calcio“. Glielo aveva dato Alfredo Di Stefano quel nomignolo: “architetto“. Il Real Madrid lo aveva scartato dopo averlo visto giocare con il Deportivo La Coruña, ma la “saeta rubia“ che di calcio capiva come pochi, aveva intuito che quel giocatore con la faccia da impiegato statale, apparentemente lento sul campo, aveva qualche cosa di speciale. Infanzia complicata quella di Luis Suarez, spentosi a Milano, all'età di 88 anni dopo una breve malattia. Suo padre lo avrebbe voluto pescatore. All'allenamento il giovane Luis andava in tram.

La sobrietà è sempre stato un tratto distintivo della sua vita: ceduto al Barcellona come “scarto“ e per zero pesos, si concesse una Dauphine, piccola vettura francese che negli anni Cinquanta/Sessanta godette di una certa fortuna continentale. Al Barcellona incontra uno dei geni ungheresi che erano scappati dal regime comunista di Budapest: Kubala. E Kubala artista del pallone gli insegna come stare in campo. Gli insegna a calciare preciso, gli insegna a fidarsi dei compagni. Gli insegna anche quella piccola astuta esitazione sui calci di punizione e sui rigori che fanno secchi i portieri e poi li mandano ai matti.

A Barcellona Luis Suarez Miramonte detto Luisito, (1.75 per 71 chili) conquista due scudetti, una coppa nazionale e una Coppa delle Fiere. Vedendosi riconosciuto nel 1960 (unico calciatore iberico a vincerlo) il prestigioso Pallone d'Oro. Nelle motivazioni France Football scrisse: “Suarez ha il carisma di un duca e nonostante una certa tendenza all'individualismo, sa mettersi al servizio della squadra“. L'anno successivo su precisa richiesta di Helenio Herrera diventato l'allenatore dell'Inter, Angelo Moratti sborsa 280 milioni dell'epoca per averlo a Milano. Dove piove sovente, come a La Coruña, dove Luis incontra la bionda Valentina che sarebbe diventata sua moglie e dove il “mago taca la bala“ lo avrebbe trasformato nello straordinario campione che per un decennio dominò la scena calcistica.

Suarez infatti diventa nell'Inter la “balestra” che innesca gli attaccanti. Herrera lo convince ad arretrare e a giocare davanti alla difesa. Per uno come Suarez che sa difendere il pallone, sa dribblare e sa far gol è un grande sacrificio. Ma dimostra la sua intelligenza calandosi nel ruolo. Luisito eccelle in un fondamentale che non si può insegnare: il lancio. E Lusito lancia lungo e preciso anche a 30-40 metri di distanza. Soprattutto lancia in corsa. Una delle cose più difficili del gioco del calcio. Nella mia modestia calcistica e alla mia veneranda età, a 15/20 metri di distanza calcio ancora adesso con una certa precisione. Ma “da fermo“. Farlo in corsa è un'altra faccenda. Luisito lo faceva: Tagnin mediano dai modi spicci recuperava il pallone, Luisito lo controllava e spediva millimetrico sui piedi di Mazzola, Milani, Jair (in Coppa anche Peirò) gli attaccanti che “attaccavano“ lo spazio.

Si diceva che l'Inter giocava in contropiede. Ma non era vero. Forte di una difesa ermetica – Burgnich (che la Juve aveva acquistato salvo liberarsene per il più tecnico e fallimentare Burelli), Facchetti, Guarneri, Picchi –, l'Inter di Helenio sfruttava sostanzialmente tre soluzioni: il lancio di Suarez, che toglieva agli avversari sistematicamente un tempo di gioco. Le scorribande di Facchetti primo terzino-ala della storia del calcio italiano. E le invenzioni di Mario Corso, anomalo fantasista che trotterellava (nella zona di campo coperta dall'ombra, scrisse perfidamente Gianni Brera) con i calzettoni abbassati emulando Sivori. Che portava la maglia numero 11, e aveva il genio nei piedi. Gianni Reif, grande giornalista che sapeva come far vendere i giornali, una volta titolò: “L'Einstein di San Michele Extra“. Mariolino Corso veniva da quelle parti, nel veronese. E il suo piede mancino fece la storia inventando la famosa punizione a “foglia morta“, quella che planava molle e si spegneva in fondo alla rete.

Con l'Inter, Suarez vinse tre campionati, due Coppe Campioni e due Coppe Intercontinentali. Passata di mano la società da Moratti a Fraizzoli, Lusito era invecchiato. E quindi Fraizzoli un giorno lo chiamò e gli disse: “Devo vendere uno tra lei e Corso“. Replicò Suarez: “Venda me che ho già 35 anni, Mario ne ha soli 29“. Finì per il canto del cigno alla Sampdoria di Lippi e Lodetti. Era un uomo per bene. Ha raccontato Mazzola che quando lui e gli altri sbarbini fuggivano a mezzanotte dalla finestra dalle grinfie di Herrera, andava a cercarli Suarez, li trovava e sovente ci scappava un ceffone.

Vinse con la maglia della Spagna un Europeo. La successiva edizione gli fu preclusa dal dittatore Franco, che impedì alla Spagna di partecipare visto che la manifestazione si svolgeva in Russia. Detto tra noi: con quella Spagna, forse avrebbe vinto anche il sottoscritto. Visto che i suoi compagni di reparto (lui giostrava con la maglia numero 10) erano Miguel, Kubala, Di Stefano e Gento. Da allenatore vinse un titolo continentale Under 21 in finale proprio contro l'Italia. A Milano abitava in zona San Siro. Per qualche tempo fece alcune comparsate televisive. Il calcio odierno non gli piaceva. Una volto confessò: “di tattica capisco un tubo: il calcio è semplice, prendi la palla, se ti stanno addosso dribbli, se un compagno si smarca lo servi“.

Nei primi tempi a Milano, ogni tanto si concedeva qualche “libera uscita“ sul terreno del Meazza. E allora bastava la voce autoritaria di capitan Picchi a rimetterlo nei ranghi. Vederlo giocare era una delizia. Sembrava impossibile riuscisse a fare i ricami che esibiva sul prato. Suarez aveva il “dono“. Il “dono“ è cosa di pochi. Per rivedere un calciatore con quelle qualità, l'Italia ha dovuto attendere Platini, Falcao e in tempi più recenti Andrea Pirlo. Prima di Suarez era più facile: Schiaffino, Liedholm, l'ultimo Boniperti, Rivera, Giacomino Bulgarelli, Humberto Rosa del Padova. Dopo di loro un regista del quale pochi hanno memoria: giocava nel Cagliari con Gigi Riva e si chiamava Greatti. Tralascio gente come Zico e Maradona: gente che faceva un altro mestiere e che occasionalmente sapeva disegnare anche le parabole con le quali Suarez illuminava gli stadi.

Se n'è andato in silenzio, da uomo cortese, una domenica di luglio quasi per non disturbare. Negli ultimi tempi si muoveva in casa con il deambulatore e un poco se ne vergognava. Al telefono rispondeva di mala voglia. Aveva contribuito a creare la “famiglia“ degli ex interisti (lui, Corso, Mazzola) con la quale Massimo Moratti amava contornarsi. Ma aveva paura a rispondere: da quando se n'era andato Alfredo Di Stefano, l'idea della morte si era fatta più presente, come in un verso di Garcia Lorca. Suarez sapeva riconoscere il talento: in Italia portò Zanetti e Recoba, tra gli altri. Mai un nuovo Suarez. Ma gli va perdonato. Quelli come Luisito nascono ogni cento anni. E forse non bastano .  

 

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