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I sentieri di Cimbricus / Rafer e Arnie, due giganti che ci lasciano

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Giovedì 3 Dicembre 2020

 

johnson-yang 


Se ne sono andati a poche ore di distanza l’uno dall’altro: Rafer Johnson, vincitore del decathlon marziano di Roma, e Clarence "Arnie" Robinson, il lunghista che ha vissuto tre vite.

Giorgio Cimbrico

Pagine da sfogliare dopo la morte di Rafer Johnson, che se n’è andato a 86 anni. La prima risale a quando il suo allenatore lo porta diciassettenne, a Tulare, a vedere Bob Mathias: il ragazzo prodigio di Londra 1948 aveva iniziato il suo cammino per concedere il bis un paio di mesi dopo a Helsinki. Rafer, che saltabeccava tra basket, football e baseball, ne rimane impressionato e decide che il decathlon sarebbe stata l’arte sua.

Otto anni dopo un amico gli propone una parte in un film. L’amico è Kirk Douglas e la parte è del gladiatore etiope Draba, quello che nell’arena di Capua rifiuta di uccidere Spartacus (Douglas, appunto) e prova a far fuori il crudele e gelido Crasso, Laurence Olivier.

Temendo che la federazione americana lo squalifichi per professionismo, Rafer rifiuta e la parte tocca a Woody Strode, anche lui proveniente dalla UCLA e uno dei primi neri ad esser ammesso nella NFL. Il cinema, per Rafer, sarebbe venuto dopo.

Un altro salto temporale: l’8 giugno 1968 sta attraversando il “ventre” dell’Ambassador Hotel di Los Angeles al fianco di Bob Kennedy, impegnato nella campagna elettorale. Sirhan Sirhan spara e colpisce a morte chi voleva raccogliere l’eredità di John, ucciso meno di cinque anni prima. Rafer, con l’aiuto di Rosey Grier, aiuta a catturare Shiran. In una foto, è accanto a Bob, agonizzante. L’espressione è di chi ha capito che il destino è segnato. Dell’episodio, che gli lascia cicatrici profonde, scriverà nella sua autobiografia, “The best that can I be”, il meglio che ho potuto fare.

6 settembre 1960, l’oro del decathlon è stato appena assegnato: in fondo a due giornate interminabili anche i titani possono essere esausti e così uno si appoggia all’altro. Rafer e il taiwanese Yang Chuan-kwang, erano compagni di università alla californiana UCLA, avevano già gareggiato a Melbourne ’56 (secondo e ottavo, dopo che Johnson aveva rinunciato all’altra gara in cui si era qualificato ai Trials, il salto in lungo) e in comune avevano l’allenatore, Ducky Drake che, prima del colpo di pistola dei 1500 distribuì all’uno e all’altro, divisi da 67 punti, i consigli del caso.

A Johnson: “Stagli attaccato ai talloni e preparati a un finale d’inferno”. A Yang: “Vedi di accumulare vantaggio e prova a dare tutto quando sentirai la campana”. Yang attaccò, Johnson provò ad addentargli i talloni e finì per cedere per poco più di un secondo. L’oro fu suo per 58 punti e, a scorrere i parziali, risulta evidente che la differenza venne scandita dal disco: l’americano approdò a 48 metri e mezzo (aveva un record di 52.50), il taiwanese non raggiunse i 40.

Sino a quel momento, l’equilibrio si era trasformato nella più potente ed eccitante delle spezie, a cominciare da una prima giornata in cui la velocità di Yang aveva avuto spesso la meglio sulla forza di Rafer (che comunque in carriera un 10”3 lo aveva rimediato), capace di superare i 15 metri e mezzo nel peso, ma costretto ad accusare nei 100 (10”7 a 10”9) nel lungo (7.46 a 7.35), nell’alto (1.90 a 1.85), nei 400 (48”1 a 48”3) in fondo a un impegno che si esaurì alle 11 di sera.

Rafer, che aveva 13”8 nei 110hs, fallì la prova inaugurale della seconda giornata prendendo in pieno la prima barriera e raccogliendo un misero 15”3: Yang corse in 14”6 (e Franco Sar, 14”7, mise le basi per il suo formidabile sesto posto) e lanciò il suo serrate, ma il sogno di diventare il primo taiwanese a vestire i panni di campione olimpico venne frustrato dalla resistenza di Johnson che limitò i danni nell’asta (4.30 a 4.10), guadagnò qualcosa nel giavellotto (aveva un record personale oltre i 76) e strinse i denti su quella distanza che per i proteiformi prende spesso le sembianze di una maratona.

Nella sua vita in pista, tre record del mondo (uno a casa sua, a Kingsburg, California, uno a Mosca in un match Urss-Usa, uno a Eugene), una dozzina di film (uno, Licenza di Uccidere, del ciclo di 007), un lungo impegno per i disabili.

 
CLARENCE “ARNIE” ROBINSON

Molti di quelli che andavano ad allenarsi al campo di San Diego non sapevano bene chi fosse Clarence Robinson, per tutti “Arnie”. Per molto tempo avevano visto quell’uomo trafficare con il sistema di cronometraggio elettronico e nessuno sapeva che l’aveva pagato di tasca propria, prelevando 35.000 dollari dai suoi risparmi.

“Arnie” se n’è andato l’altro giorno, aveva 72 anni e alle spalle aveva tre vite. La seconda venne dopo un terribile incidente automobilistico dal quale scampò, nel 2000; la terza la costruì, con coraggio e determinazione, dal 2005, resistendo agli assalti di tumore al cervello. La prima risale agli albori degli anni Settanta quando iniziò la sua collezione di titoli americani nel salto in lungo – alla fine sarebbero stati sei – per trovare rapida collocazione tra i migliori specialisti al mondo.

robinson

Quattro anni dopo, “Arnie” era cresciuto e ai Trials era stato capace di esprimersi sino a 8.37, sia pure con vento oltre la norma. A Montreal risolse già al primo salto: 8.35, proprio come il miglior balzo dei vecchi maestri Ralph Boston e Igor Ter Ovanesian prima che Bob Beamon disegnasse la sua infinita parabola messicana.

Quel giorno, il 29 luglio 1976, “Arnie” assegnò a Randy un distacco di 24 centimetri: a Monaco aveva ceduto per 21 e così poteva dire di aver saldato il conto a suo favore. L’ultimo suo successo importante risale alla prima Coppa del Mondo, a Düsseldorf 1977. Il dominio dei lunghisti americani si sarebbe interrotto – per boicottaggio – a Mosca ’80 (ma il salto vincente di Lutz Dombrovski a 8.54 sarebbe stato un osso molto duro da rodere) per riprendere con il poker di Carl Lewis.

 

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