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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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Piste&Pedane / Marcia o muori: il crepuscolo degli eroi

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Martedì 26 Febbraio 2019


50 km 


Intervista con il saggio Pietro Pastorini sulla cancellazione delle gare lunghe di marcia dai programmi olimpici e mondiali. Gran parte della tradizione – che nel nostro Paese è storia dello sport – sacrificata sull’altare del profitto imposto da chi maneggia le scelte tecniche a vantaggio dello spettacollo televisivo.

Daniele Perboni

Come ormai noto alla gran parte dei nostri lettori, agli inizi di febbraio la IAAF ha ufficializzato alcune proposte della Race Walking Committee (Commissione della marcia, presieduta, da tempo immemore, da Maurizio Damilano). Proposte che tendono a cancellare dal programma atletico la 50 e la 20 chilometri, per sostituirle con la 30 e la 10 chilometri e che saranno votate nella prossima riunione del Consiglio IAAF (Doha, 10-11 marzo). Inoltre si propone di inserire uno speciale controllo elettronico per pizzicare chi infrange l’aurea regola della sospensione, controllo basato su una speciale soletta da applicare alle scarpe degli atleti. Il progetto, naturalmente, è nato da un invito del Comitato Olimpico internazionale. Motivo della rivoluzione? Rendere più appetibile al pubblico televisivo lo spettacolo dei marciatori che si dannano l’anima sulle strade infuocate.

Per farla breve, sono troppe le ore dedicate ai “puzzapiedi”: quattro gare (uomini e donne) sulle distanze classiche “ruberebbero” circa sei ore ai programmi televisivi. Riducendo il tutto alla commedia dei 30 e dei 10 si arriverebbe alla metà. Decenni di epiche sfide, centinaia di campioni relegati in soffitta, declassati a rimasugli del passato, buoni solo per che cosa? Rimembranze. Il business non conosce pietà. E neppure i soloni del CIO e della IAAF. Come scriveva Giorgio Bocca nel 1962, in una famosa inchiesta pubblicata sul Giorno: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”.

Ora si punta su altri sport, più moderni e spettacolari. Recentemente sembra abbiano riscoperto la breakdance (la vorrebbero inserire nel programma di Parigi 2024), oppure il surf da onda (a Tokyo 2020 ci sarà). Dimenticandosi che questi spettacoli esistono da decenni. La breakdance si sviluppò nel Bronx agli inizi degli anni ‘70, mentre del surf ne parla addirittura il capitano James Cook nei suoi diari mentre esplorava la Polinesia (le isole Hawaii furono scoperte dal capitano inglese nel 1778).

Naturalmente la notizia in brevissimo tempo ha fatto il giro del mondo e numerosi comitati sono nati per cercare di scongiurare “l’orrendo delitto”, come etichettato da qualcuno. A tal proposito è nata una pagina Facebook (www.facebook.com/LaMarciaCom) oltre all’hashtag #savetheracewalking nel tentativo, appunto, di salvare la marcia nei suoi classici chilometraggi. Già hanno preso posizione campioni come l’olimpionico slovacco Matej Toth e il francese Yohann Diniz, campione mondiale a Londra 2017 e tre volte europeo. Anche la FIDAL si è mossa tempestivamente, inviando una missiva alla IAAF dove annuncia la sua contrarietà alla “novità”.

Ma come stanno vivendo questi momenti gli addetti ai lavori? Naturalmente i fratelli Damilano sostengono la tesi del “se vogliamo salvare veramente la marcia non ci resta che adeguarci”. Realisti forse più del re. Anche se gli esperti di politica olimpica e uomini vicini al presidente Sebastian Coe non hanno dubbi: si farà, senza se e senza ma. Il meccanismo si è messo in moto e difficilmente si riuscirà a bloccarlo.

A tal proposito abbiamo interpellato Pietro Pastorini, uomo che da oltre cinquant’anni vive di marcia, si nutre di marcia, respira marcia, insegna marcia, è stato marciatore, prega e lotta per la marcia, senza la marcia non esisterebbe, come ha fortemente sottolineato. Per tutto ciò, all’inizio dell’anno, è stato insignito del “Premio alla virtù civica Panettone d’Oro”, nato a metà degli anni ‘90 come riconoscimento alle persone che si sono distinte per le loro virtù civiche. Ecco la motivazione: “Come impegno politico, negli anni ’70 ha portato l’atletica leggera a Quarto Oggiaro, al Gallaratese e alla Comasina accettando di allenare alla corsa gratuitamente tutti i ragazzi senza discriminazione, per poterli togliere da dipendenze pericolose. Così ha vinto tutto ciò che si poteva vincere, mandando decine di giovani su podi mondiali. Da ottantenne continua ad allenare con l’entusiasmo di un ragazzino, considerando lo sport una filosofia di vita”.

Lo raggiungiamo al telefono mentre, in auto, sta seguendo il suo allievo Stefano Chiesa sulle strade di Lomello.

«Cosa vuoi che ti dica, sono incazzatissimo. È un macigno che mi è, ci è, crollato addosso. Ne ho parlato con tanti, tantissimi, anche con Sandro Damilano (che da alcuni anni segue i marciatori cinesi, specialmente gli specialisti della 20, NdR). La conclusione? Dobbiamo rassegnarci. O accettiamo oppure spariremo. Questa è la triste realtà. Ma dobbiamo anche fare un sincero “mea culpa”. Fra i maggiori colpevoli di questa situazione ci siamo anche noi. Il nostro è un mondo litigioso, dove prevale, troppo spesso, l’appartenenza a questa o a quella chiesa. Senza parlare dei giudici...».

E qui il buon vecchio si ferma. Non vuole ferire nessuno, così proseguiamo noi, sapendo di interpretare pienamente il suo pensiero. Incompetenza, voglia di protagonismo, applicazione insulsa e alla lettera del regolamento tecnico, senza distinzione fra un campionato mondiale o una garetta provinciale di ragazzini inesperti. Classico esempio i recenti tricolori indoor di Ancona. Partiti in cinque, arrivati in tre. Due squalificati, fra cui quel Massimo Stano, quarto agli Europei di Berlino 2018. E qui si innesca la polemica dei pochi atleti che si schierano al via in determinate prove. Sentiamo ancora Pietro.

«Perché mai, io dirigente di società, dovrei spendere soldi e tempo per schierare un mio atleta sapendo già in partenza che ha grandi probabilità di essere squalificato? Certe occasioni, come appunto i campionati indoor, devono essere vissute come gare “propedeutiche”, di avvicinamento. Devono servire per abituare il pubblico al gesto della marcia, oltre che dare un minimo di soddisfazione all’atleta e alla società».

Ma questo troppo sovente i giudici non lo comprendono. Ancora parole nostre ...

«Purtroppo – continua Pastorini – la marcia non fa spettacolo, non attira interessi economici e noi dobbiamo renderci conto che tutto ormai, e lo affermo con rammarico, è spettacolarizzazione e denaro. Dobbiamo accettare che ci taglino le distanze oppure, ripeto, sparire, e io questo non lo voglio. Come si dice dalle nostre parti “Vürì murì brav’om? (Traduzione per i non lombardi, o accetti o muori)».

Con quale spirito affrontano questi uomini, tecnici e atleti, un simile scempio, un tale cambio di programma che comporterà, inevitabilmente, il mutare della preparazione?

«Grandi problemi non ne avremo. Ora ci stiamo preparando per la 50, fra un paio d’anni per la 30 o per la 10. Tecnicamente e fisicamente non si tratta di un grande stravolgimento del lavoro. Come ha sottolineato uno scienziato giapponese, grande studioso di marcia (e qui butta lì un nome che non ricordiamo) “in fin dei conti si tratta sempre di marciare”. Per quanto riguarda le famose solette, non so come potranno convivere nuove regole e nuove tecnologie. Ma chi è in grado di marciare correttamente non avrà problemi, così come non ne ha ora».

Conclusioni: comunque vada a finire la “saga” della marcia, questa continuerà ad essere vitale, viva e presente. La resilienza non è forse una caratteristica peculiare dei Sapiens Sapiens e dei marciatori? Gli specialisti della 50 e della 20. Per gli altri non siamo ancora in grado di fornire garanzie.

 

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