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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

  Direttore: Gianfranco Colasante   

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MITI E STORIE DEL GIORNALISMO SPORTIVO
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I sentieri di Cimbricus / Thomas E. Lawrence e lo sport dell'ardimento

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Lunedì 9 Aprile 2018

lawrence

La memoria, sola ricchezza dell'anima, come antidoto contro i manichini del nostro tempo e i loro padroni e gestori.

di Giorgio Cimbrico

Se lo sport è ardimento e se siete d’accordo con questo concetto, vado avanti a proporvi pagine che amo e a cui dedico sempre maggior spazio. I manichini del nostro tempo, anabolizzati dal denaro, i loro padroni e gestori, i loro compiaciuti cantori mi piacciono sempre di meno. Anzi, non mi piacciono proprio. Così come non gradisco la proliferazione degli appuntamenti: oggi li chiamano eventi. In un tempo non lontano gli All Blacks atterravano come rondoni neri ogni morte di papa e nei 100 l’unica sfida che contava era la finale olimpica. Aveva ragione il marchese di Exeter, a lungo presidente della IAAF: “Vendetevi e sarete finiti”. Si sono venduti.     

Cento anni fa Thomas Edward Lawrence stava facendo saltare i binari della ferrovia che congiungeva il Medio Oriente con l’Arabia: non era lontano ad arrivare in meta, a Damasco. Ma prima che venissero scanditi i giorni della sua gloria tormentata, questo gallese per nascita, di modesta statura, biondo, introverso, coltissimo, come Mosé aveva passato il Sinai: una missione travestita da escursione - con immancabile puntata tra i templi nabatei di Petra, scavati nella pietra rossa - a prender nota della forza turca ad Aqaba sul vertice estremo del Mar Rosso, a fissarsi in testa le sorgenti, le possibili direttrici di marcia.

Un esercito ottomano poteva colpire l’Egitto, e soprattutto la via essenziale del Canale di Suez, passando da quella porta? Consegnato il rapporto, gli permisero di tornare per qualche mese agli scavi di Carchemish, nord della Siria, dove lavorava dal 1910 nella missione del British Museum. Raccoglieva e puliva reperti ittiti, imparava l’arabo e i dialetti, si spingeva, con apparenza distratta, a dare un’occhiata ai cantieri della ferrovia Berlino-Costantinopoli-Baghdad, l’orgoglio dell’ultimo Kaiser e dell’ultimo Sultano. 

I sentieri di Lawrence, camminatore instancabile, jockey di cammelli, si intersecano, vengono cancellati dalla sabbia del deserto, possono esser ritrovati per un caso, per fortunata fatalità. Quel vecchio, ad esempio, l’aveva incontrato, dimostrando che il passato non è così profondo e può essere impugnato come un filo d’Arianna per trovare la strada nel labirinto: “Arrivò a buio, dormì qui una notte: lo vidi ripartire verso nord”. Il castello è appena a settentrione di Amman, verso Damasco: il vecchio ricordava di avere 12 anni e il figlio, guida in quel diroccato maniero arabo, testimoniava che suo padre ne aveva 93: era l’estate del ’99 e sia le date che l’età corrispondevano. Il vecchio aveva occhi stanchi ma la mente ancora lucida: non inventava quando diceva che quella sera dal deserto spirava un’aria aspra e Lawrence, stendendosi a terra, si strinse nella jellabia bianca da sceriffo dei Beni Ueish. Chiese un tè e fu lui a portarglielo. “Parlava bene l’arabo, Orens”.

E questo incontro fu concesso dalla sorte lungo un viaggio in cui incespicare nelle tracce di Lawrence d’Arabia, dell’Emiro Dinamite come lo chiamavano i bedu che stringevano il Lee Enfield fornito dall’amministrazione imperiale britannico, finì per diventare una costante: si scavalcava spesso il binario che si perdeva all’orizzonte e che lui fece saltare in aria una, due, molte volte; c’era la vena d’acqua che sgorgava dalle cattedrali d’arenaria di Wadi Rom dove l’alleanza con Auda Abutai divenne realtà e dove lui andava a riflettere; e l’unica strada praticabile portava a Aqaba, con gli obici turchi che guardavano il mare e che lui avrebbe disinnescato con un colpo di mano che solo chi non aveva frequentato l’accademia militare poteva inventare come un improvviso dell’anima.

Winston Churchill non era tenero nè facile alle lacrime ma al funerale di T.E. pianse vedendo in quella morte la fine di un’epoca, di un’epopea, quella degli avventurieri (Clive, Brooke, Raffles), dei martiri imperiali (Gordon), dei poeti-guerrieri, dei viaggiatori nell’ignoto, delle spie che diedero vita al Grande Gioco sulla frontiera indiana del Nord Ovest. Più tardi, solo David Stirling e Orde Wingate avrebbero avuto accesso a un ordine cavalleresco senza nome.

Anche il cottage dove Lawrence si spense aveva il nome e il profumo di un mondo sospeso tra il reale e l’onirico: Clouds Hill, la collina delle nuvole. Era il 19 maggio 1935 e l’uomo aveva perso i contatti con la realtà da sei giorni quando, per evitare due ragazzi in bicicletta, era stato sbalzato dalla potente Brough (moto e idrovolanti lo affascinavano) finendo in un’altra terra desolata, quella del coma. La tesi del complotto non tardò a fiorire: da chi era occupata quella berlina nera che lo seguiva nelle strade del Dorset e che, secondo testimonianze, gli attraversò la strada obbligandolo alla sterzata mortale? Anche il più illustre tra gli agenti segreti può diventare scomodo.

Ma T.E. non era soltanto un agente segreto: correre sulla cresta dei saggi e delle prefazioni che su di lui sono state scritti significa trovarlo etichettato come asceta, masochista, intellettuale, stratega, omosessuale, simpatizzante nazista, archeologo, studioso di architettura medievale, poeta, scrittore, erudito, sino a giungere alla diminutio proposta da E.M. Forster. “un simpatico ometto”. Molti lati, troppi: guardar dentro significa perdersi nelle rifrazioni. “Rimasi con la scatola in mano”: disse Giorgio V quando Lawrence rifiutò il Distinguished Service Order, accompagnato da un cavalierato, quello del Bagno, per cui molti si sarebbero fatti scannare. I tentativi di viaggio all’interno si perdono in labirinti: elusivo, continua a sfuggire lasciando tracce che possono esser perdute.

Cosa faceva da carrista, immatricolato con il nome di Shaw, in Afghanistan, in pieni anni Venti, prima di venir rimpatriato? Impegnato in un tentativo di sollevazione delle tribù dell’Asia Centrale contro il giovane governo sovietico? Erano passati meno di dieci anni dalla sua epopea, dalla rivolta che aveva plasmato e organizzato poggiando sulla conoscenza dei luoghi, delle lingue e dei dialetti, degli uomini, un’avventura iniziata ventenne, prima con Hogarth (che lo recluta a Oxford), poi con Woolley agli scavi dell’ittita Carchemish. È durante quelle campagne archeologiche che inizia a tracciar mappe, a scrivere rapporti. A rendersi utile.

“La vera guerra si combatte in Europa”, sente ripetere in Egitto. Conoscerà sino in fondo la cognizione del dolore quando verrà raggiunto dalla notizia della morte dei fratelli Will e Frank, caduti in Francia. Ottiene di andare in Arabia, conosce Feisal, lo sogna re di una nuova Arabia, e il 6 giugno 1917 prende Aqaba attaccandola alle spalle. Con continui attacchi alla ferrovia dell’Hejaz diventa una spina nel fianco turco. Comanda una strana armata che si gonfia come uno uadi e che scompare come il vento che batte le dune, ed è solo quando decide di andare in avanscoperta a Deraa: ne uscirà brutalizzato da un ufficiale turco. E lì, scrive, che cade la cittadella della sua volontà.

L’autunno del ’18 lo porta a nord, verso Damasco, a capo del più grande esercito di irregolari che avventuriero britannico abbia sognato di comandare. Sa già che con l’accordo Sykes-Picot sulle ceneri dell’impero ottomano sono state create una zona d’influenza francese (Siria e Libano) e una inglese: Giordania, Palestina e il nascituro Iraq, la creatura frankensteniana di Churchill. L’Arabia agli arabi è uno slogan che gli riecheggerà dentro, lo sfiancherà.

Alla conferenza di pace di Versailles, nel ’19, fa l’ultima passerella con la veste che diventerà sudario. Quel che doveva essere deciso, è già realtà: ne approfitterà per scrivere tonnellate di appunti: la formidabile memoria lo aiuta a rinvenire episodi, volti, luoghi. Sono le 330.000 parole dei Sette Pilastri della Saggezza, “non un granché, ma il meglio che ho saputo fare”.

 

 

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