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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / I Giochi che sopravvivono al Commonwealth

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Mercoledì 21 Marzo 2018

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Per la 21.a volta tornano i Giochi dell'ex-Impero: 71 nazioni per 2,1 miliardi di abitanti, 19 sport, 275 gare, 5000 atleti.

di Giorgio Cimbrico

Sempre più fiaccato dalla neolingua, sempre più infastidito e allarmato da canali e mezzi invasivi, destinati a procurare seri danni agli utenti, sempre più incazzato con personaggi che hanno impresso un’influenza malefica (Attila e Gengiz Khan erano dei dilettanti), mi concedo una breve prolusione: di profili conosco solo quelli, dipinti da Piero della Francesca, di Federico da Montefeltro e sua moglie, conservati agli Uffizi; il condizionamento per me è solo quello che viene dall’apparecchio che regala aria fresca nelle giornate di caldo umido; la comunicazione che vorrei è quella che una volta si chiedeva alla centralinista, che era una signora o una signorina in carne e ossa, non una voce che ti offre molte opzioni.

E così, lanciando uno slogan che mi azzardo a scrivere spericolatamente tutto in lettere maiuscole TENIAMOCI STRETTO IL NOSTRO IERI (sottoslogan, sennò siamo fottuti), invito tutti a un bel tuffo sulle spiagge del Queensland: i XXI Giochi del Commonwealth, in calendario a Gold Coast dal 4 al 15 aprile, stanno avvicinandosi a lunghi passi. Cerimonie e atletica allo stadio Carrara, ma la località dove Michelangelo andava a far tagliare bianchi blocchi, quelli che lui chiamava “pezzi di carne”, non c’entra niente. Carrara viene da Karara, in aborigeno la lunga pianura.

common.games

Settantuno paesi o territori, in un alfabeto che si apre con Anguilla e si chiude con Zambia. Sterminati come il Canada, minuscoli come Jersey, persi nell’Atlantico del Sud come Tristan da Cunha e le Falkland, dotati di un nuovo nome (il Lesotho era il Basutoland; il Malawi era il Nyasaland), orgogliosi di esibire colori e simboli araldici avvinti a vecchie tradizioni (Galles, Scozia, Inghilterra), tornano a offrire ogni quattro anni un’aria giubilare e un fascino imperiale che qualcuno si affretta a etichettare come anacronistici. E proprio per questo da stringere e da accarezzare con affetto.

Nel 1911, in pieno clima di festeggiamenti per la fresca incoronazione di Giorgio V, li chiamarono Inter Empire Championships e si risolsero in una cosetta piuttosto rapida e poco frequentata: quattro paesi, nove gare e fu tutto. Ma l’esigenza di un’Olimpiade imperiale e britannica, specie in un mondo (vedi atlanti dell’epoca) molto colorato di rosa carico (a palmi, un quinto delle terre emerse era cosa loro), continuò a premere sulle coscienze e sulle ambizioni di chi molto sport aveva inventato, riesumato, codificato, sino alla confezione di quella che viene considerata la prima vera edizione, ad Hamilton, Ontario, nell’estate del 1930.

Erano nati i British Empire Games che tali sarebbero rimasti sino al 1950.

A Cardiff, nel 1958, prima revisione dell’etichetta: British Empire and Commonwealth Games che, malgrado la liquidazione della maggior parte delle colonie alla fine dei Cinquanta e all’inizio dei Sessanta, tennero con questo nome sino a Kingston 1966, rilevati a Edinburgo 1970 dai British Commonwealth Games. Da Edmonton ‘78, eliminazione di British: Commonwealth Games e basta. E così, qualche bello spirito ha azzardato che in un futuro non lontano, popolato magari dalle repubbliche di Scozia e d’Australia, rimarranno soltanto i Games.

Una premessa: ai Giochi non ha mai partecipato e non partecipa la Gran Bretagna, ma la sua realtà parcellizzata: Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord, isola di Man, Jersey, Guernsey. A dare consistenza e a renderli la terza rassegna multisport dopo Olimpiadi e Giochi Asiatici, ci sono i dominion, quelle poche colonie rimaste (Bermuda, St Helena), i paesi che non hanno lasciato la vecchia orbita o che, come il Mozambico, l’hanno raggiunta, un vecchio nemico (il Sudafrica), le isolette amministrate da un commissioner o da un balivo di nomina reale, le dipendenze. Gli arcipelaghi del sud Atlantico e dell’Antartide non partecipano perché le gare di nuoto non sono aperte anche a foche, orche e elefanti marini che costituiscono le popolazioni locali, a parte i Royal Marines che laggiù tengono corsi di addestramento e sopravvivenza.

Pagine che meritano di esser sfogliate, sinchè c’è saliva. Cominciando con il Miracle Mile del ’54 a Vancouver, quando quel buonanima di sir Roger Bannister infilò John Landy, che gli aveva sottratto il record, centrando la “seconda mano” del suo Slam: aveva cominciato con il primo sub 4’ nel miglio e avrebbe proseguito a Berna, con il titolo europeo dei 1500. Sul foglio gara di Vancouver è stampato 1) Dr Roger Bannister. Giusto, si era appena laureato in medicina. Il Dottor Bannister, suppongo.

Un salto di un ventennio per atterrare Christchurch 1974 e rivisitare la coraggiosa corsa di Filbert Bayi, tanzaniano leggero come una piuma. From gun to tape, dicono gli inglesi, dalla pistola al nastro (filo vi piace di più?), per trasmettere, con un paio di immagini, il valore e la virtù di chi parte in testa e in testa arriva alla ricerca di nuovi territori. Si correva in Nuova Zelanda e così il pubblico kiwi bramì come un cervo in amore quando, al suono della campana, John Walker, lunga chioma scompigliata dalla brezza che lui stesso sapeva creare, si lanciò all’inseguimento dell’africano.

Se Bayi chiuse l’ultimo giro in 55”4, tutt’oggi parziale di prim’ordine, Walker fu un secondo netto più veloce: per il neozelandese significò finire in 3’32”52, sotto il record del mondo, 3’33”1 di Jim Ryun, ma Bayi conservò quel che bastava di un vantaggio enorme, ridotto a pochi palmi: 3’32”16. Fu la più grande gara della storia: Ben Jipcho chiuse sul tempo di Ryun (3’33”16), Rod Dixon non ebbe un posto sul podio transitando sul traguardo in 3’33”89, Graham Crouch in 3’34”22 strappò a Herb Elliott un record australiano dei 1500 che aveva la struttura della leggenda: era il tempo che aveva consegnato all’Imbattibile di Subiaco, Western Australia, l’oro olimpico e il record del mondo ai Giochi di Roma, tre secondi davanti a Michel Jazy.

I Giochi del Commonwealth hanno avuto molti significati (uno è stato quello di consegnare all’atletica la nascita di una nuova nazione, di una futura potenza: nel ’58, a Cardiff, terzo nelle 6 miglia Arere Anentia, Kenya, il primo di una serie sterminata) e hanno regalato palpiti, specie nello sprint. Come a Edmonton ’78 quando Donald Quarrie riuscì a contenere la furia di uno scozzese che partiva in piedi: 10”03 il giamaicano, 10”07 Allan Wells, 10”09 Hasely Crawford, campione olimpico in carica, offre il rapporto ufficiale. Quattro anni dopo, a Brisbane, a sua volta con la corona olimpica in testa, Allan sarebbe sceso a 10”02 resistendo per tre piccoli centesimi alla corsa violenta di un canadese nativo della Giamaica: Ben Johnson.

 

 

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