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Giornale di attualita' storia e documentazione sullo Sport Olimpico in Italia

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I sentieri di Cimbricus / A Londra, dove tutto ha avuto inizio

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Mercoledì 2 Agosto 2017

bolt-2017 2

di Giorgio Cimbrico

Giusto che finisca lì, a Londra, la città che lui ama, la città del carnevale giamaicano di Notting Hill, quella che hanno chiamato Babilonia ed è la madre enorme, cinica e generosa, di tutto quel che si può chiedere al mondo: un’anatra laccata, una passeggiata tra i docks diventati di moda, i magnifici Piero della Francesca della National Gallery, comprati, non saccheggiati come dicono troppi italianuzzi. Giusto che il Lampo Bolt si spenga dolcemente, senza cortocircuiti, nello stadio della sua seconda tripletta, in una serata dove i ragazzi entreranno dopo aver pagato un biglietto che costa 9 sterline e 58 penny e, conoscendo gli inglesi, saranno pochi quelli che lo butteranno via.

L’ultima freccia dell’arciere, the last call, l’ultima chiamata, l’ultima possibilità di vederlo al suo meglio perché Usain Bolt è stato kolossal quando di mezzo c’erano i titoli che lasciano tracce: quattro record del mondo – 9”69 e 9”58, 19”30 e 19”19 – a Pechino olimpica e Berlino mondiale, i momenti della sua ascesa e della conquista di un vertice che neppure lui ha saputo più avvicinare: all’Olympastadion, ultimi 50 metri in 4”12. I Supereroi, Flash: tutti pipponi.

Questa è l’occasione finale e non è un saldo estivo. Usain viene per vincere, non per andare avanti nelle celebrazioni del lungo addio, cominciate a Kingston, proseguite nell’amata Ostrava e a Montecarlo. E proprio al Louis II è stato chiaro che la bandiera non è stata ammainata: lui, il solito gigante, in mezzo ad avversari che gli arrivavano alla spalla, che sembravano nani, che non avevano bisogno di essere intimoriti dal suo sguardo. Lui non è mai ricorso a questi trucchi, né ha mai pescato nell’arroganza di Carl Lewis.

Dopo, è stato bellissimo, come al solito: centinaia di autografi, di foto, lui ce diceva agli addetti al campo di aspettare perché aveva da fare. L’etichetta è banale: il campione della gente. Che lo ha amato sin dal suo ingresso in scena e non ha mai smesso e vorrebbe andasse avanti. Ma lui ha mal di schiena e qualcuno ha scoperto che ha una gamba più corta e forse da questa asimmetria può nascere il suo vento divino.

Ed è giusto che lui finisca dove molto è cominciato, perché a Ascot si galoppa dal 1711, a Epsom dal 1779, a Lord’s si gioca a cricket dal 1814 e al Kennington Oval dal 1845, a Henley si voga dal 1851 (ma la sfida sul Tamigi tra gli studenti di Oxford e Cambridge, la Boat Race, pesca ancora più indietro nel tempo, al 1829), Blackheath è dal 1858 uno dei luoghi del rugby delle origini, la Football Association è stata fondata nella Taverna dei Framassoni di Great Queen Street nell’autunno del 1863, Wimbledon è il tennis dal 1877 e Queen’s, con la sua magnifica club house georgiana, è la perfetta introduzione dei Championships dal 1886, Twickenham è la casa del rugby della Rosa dal 1910. E allontanarsi dalla cerchia metropolitana, scendere al mare, significa far rotta, da Southampton, verso Cowes e l’isola di Wight, dove il Royal Yacht Squadron è attivo dal 1815, l’anno di Waterloo.

Londra all’atletica non ha dedicato un solo luogo sacro, ma una serie, in un processo di sedimentazione simile a quello di antichi siti archeologici: nel principiare dell’era moderna, sotto la guida di lord Dernborough, nacque lo stadio di White City, nel quartiere d Sheperd’s Bush,  culla dei Giochi del 1908. A ovest. Quarant’anni dopo, per il 1948 della rinascita dalle rovine della guerra, il rilevamento astronomico porterà al nord di Wembley e nel 2012, seguendo un movimento simile a quello delle lancette dell’orologio, la scelta cadrà sull’estremo East End di Stratford, oggi parco Olimpico intitolato Elisabetta Ii, capace, quanto a durata del regno, di stringere in pugno, oltre allo scettro, più record di Usain Bolt.  

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